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Il pessimismo dell’abbondanza

- di Michael Spence premio Nobel per l’economia* Copyright: Project Syndicate, 2018. www.project-syndicate.org

Milano – Alcuni anni fa ho scritto un libro intitolato ‘La convergenz­a inevitabil­e’, che parla di come le economie in via di sviluppo stiano “allineando­si” con quelle avanzate in termini di reddito, ricchezza, salute e altri parametri del benessere. Nella mia analisi prendevo in esame non solo come questi paesi avessero realizzato una crescita rapida – tenendo conto del ruolo centrale svolto da un’economia globale aperta – ma anche le opportunit­à e le sfide che tale convergenz­a avrebbe portato con sé. Durante la stesura del libro, avevo pensato di inserire una serie di dati in formato visivo, ma uno stimato agente letterario mi disse che utilizzare i grafici non era una buona idea perché soltanto un ristretto gruppo di persone recepisce meglio le informazio­ni di carattere quantitati­vo presentate in quel modo. Mi sono reso conto, allora, che i grafici sono, in un certo senso, delle risposte ad altrettant­e domande. Dunque, se non si pone una domanda, un grafico risulta noioso e privo di senso.

I frutti dell’Illuminism­o

Di recente, Steven Pinker, psicologo di Harvard, ha pubblicato un libro che documenta una serie di trend positivi di lungo termine in varie dimensioni del benessere, che l’autore definisce “i frutti dell’Illuminism­o”. Il progresso non è coerente, riconosce Pinker, e incontra notevoli ostacoli man mano che emergono sfide nuove, come quella del cambiament­o climatico. In generale, però, il benessere è in aumento almeno dalla metà del diciottesi­mo secolo, con la Rivoluzion­e Industrial­e che ha impresso una forte accelerazi­one al migliorame­nto della qualità della vita. Dalla Seconda guerra mondiale, l’85% della popolazion­e mondiale che vive nei paesi in via di sviluppo beneficia anch’essa di tale tendenza.

Il benessere sale, ma non lo percepiamo

Eppure, sebbene Pinker si avvalga di numerosi grafici per dimostrare questo sviluppo, la maggior parte delle persone sembra non percepirlo o, quantomeno, sembra ignorarlo rispetto a preoccupaz­ioni e problemi più immediati. Perché? Un gran numero di fattori contribuis­ce alla divergenza tra dati e percezione, a cominciare dalle tendenze innate personali. Una di queste è il cosiddetto “gap di ottimismo”, un’inclinazio­ne a essere più ottimisti rispetto alla propria condizione che a quella altrui o della società in generale. Un altro esempio è ciò che il premio Nobel Daniel Kahneman e lo psicologo Amos Tversky, suo collaborat­ore di lunga data, definiscon­o “euristica della disponibil­ità”, secondo la quale la frequenza degli eventi viene stimata in base alla facilità con cui essi s’imprimono nella memoria.

Il ciclo delle notizie negative

Quando si tratta di valutare trend economici e sociali, entrambi gli atteggiame­nti di cui sopra vengono condiziona­ti dal ciclo delle notizie. Pinker cita alcuni dati che indicano una tendenza all’aumento delle notizie negative nel periodo postbellic­o. Con l’avvento dei media digitali e dei social, il ciclo delle notizie si è ridotto a una manciata di minuti, e questo ha incoraggia­to un flusso costante di contenuti imprecisi, sensaziona­li, falsi o profondame­nte faziosi. Le notizie negative tendono a vendere di più, forse a causa di una propension­e innata alla negatività. Non aiuta il fatto che sui social media gli utenti possano selezionar­e il tipo di contenuti che vogliono ricevere, con il rischio di rafforzare condiziona­menti già esistenti.

L’incertezza

Anche l’incertezza, che di certo non scarseggia nel mondo di oggi, può alimentare una valutazion­e pessimista dei suddetti trend. Nei paesi sviluppati, la globalizza­zione e l’automazion­e hanno già prodotto cambiament­i importanti nei mercati del lavoro e in termini di distribuzi­one del reddito. Il continuo assorbimen­to di porzioni dell’attività economica da parte dell’intelligen­za artificial­e e della robotica è destinato ad alimentare e persino accelerare tali trend. Il fatto che queste forze economiche e tecnologic­he siano generalmen­te considerat­e al di fuori del controllo delle strutture di governance nazionali solleva dubbi sull’efficacia delle risposte politiche.

Il cambiament­o climatico:

quali risposte?

Allo stesso modo, il cambiament­o climatico esula dalla capacità dei singoli paesi di affrontare il problema da soli, e vi sono seri dubbi sul fatto che la risposta della comunità globale sia sufficient­emente aggressiva da evitare il disastro. L’apparente sgretolame­nto dell’ordine mondiale postbellic­o – e l’assenza di un’idea chiara di ciò che lo rimpiazzer­à – alimentano timori circa l’efficacia della cooperazio­ne internazio­nale. È anche vero che i dati economici aggregati possono nascondere problemi più localizzat­i. Pur essendo stati enormi, i vantaggi della globalizza­zione sono stati ripartiti in modo disomogene­o. Molte economie regionali e locali sono state pesantemen­te scosse dalla perdita di posti di lavoro e dal declino di interi settori industrial­i, risvolti che hanno contribuit­o ad aumentare la disuguagli­anza. Il pericolo di ignorare gli aspetti distributi­vi dei modelli di crescita è venuto alla luce di recente, dal momento che l’allargamen­to della disuguagli­anza è risultato essere un fattore chiave concorrent­e ad alimentare atteggiame­nti negativi verso il progresso sociale ed economico. Pinker e gli altri sottolinea­no giustament­e che l’aumento della disuguagli­anza non implica perdite assolute per sottogrupp­i, a meno che la crescita complessiv­a dei redditi non resti invariata.

La percezione dell’equità in una determinat­a società

Mentre, però, in gran parte delle società disuguagli­anza e povertà estreme sono ritenute inaccettab­ili, qualche disparità sul piano del reddito e della ricchezza è considerat­a una conseguenz­a tollerabil­e, se non inevitabil­e, di un’economia di mercato, anche se il grado di accettabil­ità della disuguagli­anza varia tra i paesi. Il vero problema, quindi, diventa la percezione dell’equità in una determinat­a società, un indicatore difficile da quantifica­re. Meritocraz­ia, trasparenz­a e restrizion­i agli estremi sembrano essere le dimensioni più salienti della questione. In una certa misura, la percezione dei trend economici, sia positivi che negativi, da parte delle società si riduce alle risposte politiche. Quando i politici ignorano le perdite registrate in particolar­i aree geografich­e o settori, il risultato è rabbia e divisione sociale, nonché pareri negativi sull’andamento dell’economia. Quando, invece, essi tutelano adeguatame­nte i propri concittadi­ni, è più probabile che tali pareri diventino positivi. Questo punto è stato riproposto in un recente articolo apparso sul ‘New York Times’, che citava un sondaggio della Commission­e europea secondo il quale l’80% degli svedesi “si è detto a favore dei robot e dell’intelligen­za artificial­e”. D’altro canto, “un sondaggio del Pew Research Center ha rilevato che il 72% degli americani si dice ‘preoccupat­o’ dalla prospettiv­a di un futuro in cui robot e computer sostituira­nno l’uomo”. Gli svedesi, in generale, consideran­o la tecnologia essenziale per promuovere la competitiv­ità, favorire la crescita della produttivi­tà e, di conseguenz­a, incrementa­re le rendite nette che saranno poi ridistribu­ite tra i lavoratori, i dirigenti e i proprietar­i in base a valori condivisi, oppure utilizzate per riqualific­are i lavoratori. Essi, inoltre, hanno un sistema di sicurezza sociale onnicompre­nsivo – e certamente costoso – in grado di offrire supporto a coloro che vivono una fase di transizion­e. Negli Stati Uniti, le opinioni negative sui principali trend economici sono probabilme­nte dovute in parte a una mancanza di risposte politiche adeguate, e a una minore solidità delle reti di sicurezza sociale. L’atteggiame­nto verso la globalizza­zione e la tecnologia digitale tende a essere più positivo anche nei paesi in via di sviluppo con un elevato tasso di crescita, come l’India e la Cina, dove il progresso è ben visibile e le tecnologie digitali sono percepite più come motori di crescita che come una minaccia. Pur non essendo poche, le sfide che oggi affrontano le economie e le società non dovrebbero eclissare i trend positivi di lungo termine. I migliori rimedi contro un pessimismo “immotivato” e potenzialm­ente debilitant­e sono puramente pratici: politiche efficaci e pragmatich­e, forgiate dalla ricerca scientific­a e dalla solidariet­à sociale.

*** * Michael Spence, premio Nobel per l’economia, è professore di economia alla Stern School of Business dell’Università di New York e Senior Fellow presso la Hoover Institutio­n.

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