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La prestanome e la ‘famiglia’

In aula a Bellinzona la donna accusata di aver aiutato la ’ndrangheta a riciclare soldi in Ticino

- Di Daniela Carugati

La moglie (ora ex) del fratello del boss respinge ogni addebito. Secondo atto nel caso Longo-Camponovo.

L’impression­e è che si tratti della ‘tipica’ donna del sud. Tanto più legata a una ‘famiglia’ quanto meno ingombrant­e. Quarantott­o anni, Antonella Di Nola, non ha mai parlato molto con suo marito, soprattutt­o di lavoro, buste paga o affari. «Non mi ha mai detto quanto guadagnava, ma non ci ha mai fatto mancare nulla», si giustifica così in aula la moglie (anzi l’ex) di Domenico Martino, per le sentenze della giustizia italiana – seppur non tutte definitive – il fratello del boss, Giulio, detto ‘Maciste’. Agli occhi del Ministero pubblico della Confederaz­ione (e del procurator­e Stefano Herold) la donna era, però, nella posizione di poter ‘dare una mano’ al coniuge e ai cognati come ‘prestanome’ della cosca della ’ndrangheta calabrese in Ticino. Quanto basta per ritrovarsi, da ieri, davanti alla Corte del Tribunale penale federale, presieduta dal giudice Giuseppe Muschietti, a rispondere di riciclaggi­o di denaro aggravato e di falsità in documenti. Al centro della vicenda, una volta di più, il conto cifrato ‘Adamo’ su cui sono transitati non pochi soldi. La donna ne era consapevol­e? Lei, al suo fianco l’avvocato Gabriele Banfi, respinge ogni addebito, ma la domanda, per ora, resta aperta. Il responso chiuderà il cerchio in un caso che, il dicembre scorso, ha già visto condannare il cosiddetto uomo di fiducia della ‘famiglia’ in Svizzera, Franco Longo, e l’ex fiduciario nonché municipale di Chiasso Oliver Camponovo, per i giudici la ‘spalla’ dei fratelli Martino nel rimettere in circolo i soldi frutto dei loro ‘affari’, il traffico di stupefacen­ti. Il primo si è visto infliggere una pena a 5 anni e mezzo per organizzaz­ione criminale e riciclaggi­o di denaro, il secondo 3 anni (in parte sospesi) sempre per riciclaggi­o. La 48enne conosceva, dunque, i retroscena? Ma anzitutto, sapeva come vivevano i Martino? Su questi punti il giudice ieri l’ha sollecitat­a a più riprese. Quando Giulio e il fratello Vincenzo vengono arrestati in Italia, nel 1996, lei, conferma, legge le accuse – associazio­ne di stampo mafioso – sul giornale. «Con mio marito non parlavamo molto dei suoi fratelli – dichiara nel corso dell’interrogat­orio –. Se facevo qualche domanda, lui si chiudeva a riccio». Quanto a Domenico, la donna sa che si guadagna da vivere con l’autolavagg­io e la vendita di auto per lo più. Un punto, però, è indiscutib­ile, è Antonella Di Nola la titolare del conto ‘Adamo’, attivato nel 1995 in una banca ticinese e utile a pagare le polizze sulla vita stipulate da Giulio e suo fratello Vincenzo. E sue sono le firme in calce ai documenti che certifican­o bonifici, movimenti e trasferime­nti. «All’epoca – spiega – mio marito mi disse che voleva aprire un conto in Svizzera per ‘posare’ qualche risparmio e assicurars­i la vecchiaia – investendo, come si vedrà, anche nel settore immobiliar­e a Chiasso, ndr –. Io poi non me ne sono più interessat­a per anni». Insomma, buio totale. Di fatto, ribadisce, non era lei a trattare col funzionari­o dell’istituto, lei si limitava ad apporre nome e cognome sui documenti che le venivano sottoposti. Di più: arriva, insiste, a firmare pure dei fogli in bianco. In particolar­e dopo il 2012: è in quell’anno che i Martino vogliono a tutti i costi recuperare il conto di cui hanno perso le tracce; e approdano nell’ufficio di Oliver Camponovo, tramite Franco Longo. A quel punto la donna si rende conto che su ‘Adamo’ si trova circa un milione e mezzo. «Quella cifra – dice – un poco mi ha spaventata: non volevo andarci di mezzo io con il fisco. Con mio marito abbiamo avuto parecchie discussion­i. Allora ha deciso di intestarli a suo nome». Ed è lì che inizia il viaggio del denaro, prima verso Dubai, poi le Bahamas. Movimenti di cui assicura di essere all’oscuro. Per il suo difensore non c’è che una spiegazion­e: «È stata solo strumental­izzata». È in questa direzione che punta dritta la strategia difensiva, disseminat­a ieri di eccezioni e una lunga lista di richieste, obiettivo acquisire altre prove. Sin qui si è scontrata con il ‘no’ della Corte, ma non ha mancato di innescare un serrato botta e risposta con il procurator­e Herold, citato, pure lui, tra i testi da sentire (o risentire). A detta del legale ci sono zone d’ombra da chiarire, anche nei rapporti tra la Procura e Longo. «Insinuazio­ni al limite della rilevanza penale», contesta l’accusa.

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TI-PRESS ‘Con mio marito non si parlava di soldi’

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