Un capitale sociale fatto di lavoro e identità
Uno sciopero è il momento in cui si scontrano interessi diversi; si risolve di solito in breve tempo, perché per ognuna delle parti in causa, il padronato, i lavoratori, restare in conflitto è un costo e un impegno. Si torna quindi ai rapporti precedenti con aggiustamenti più o meno importanti. Questo però non è stato il caso dello sciopero all’Officina, perché la vittoria operaia ha rimesso in campo la questione del che ne facciamo di questo atelier di riparazioni aperto nel 1891. Non si poteva lasciar gestire il dopo ai dirigenti che avevano affermato essere l’azienda una palla al piede, un deficit per le ferrovie. Così si è creata quella sorta di precario equilibrio tra chi continuava a tirare i fili ma non poteva più fare a meno di considerare le controparti, lavoratori, sindacati, Comune, Cantone, opinione pubblica e chi cercava di far capire le proprie ragioni e di imprimere una svolta nel modo di muoversi dell’azienda sul mercato e di organizzarsi all’interno. Quando, con alcuni specialisti e con i giornalisti de ‘laRegione’, contribuii al testo ‘Giù le mani dalle Officine’, realizzai anche delle interviste che chiudevano il libro proprio con un capitoletto intitolato ‘Officina 2018’: “La vedo con un ruolo importante; chi la dirige ha un’etica, una morale, sente la responsabilità verso l’esterno, la sua funzione di servizio.” mi aveva detto Gianni Frizzo; Ivan Cozzaglio aveva aggiunto: “La vorrei ancora statale, con il dinamismo attuale e una gestione interna migliore, specialmente delle risorse umane. Dipenderà sempre dalle persone, ma lo sciopero ha portato insegnamenti. Collaborare con le ditte private è possibile, per mantenere la massa critica di lavoro necessaria però occhio agli impieghi di qualità per gli apprendisti, alle condizioni di lavoro e al prodotto finale. L’Officina deve essere un esempio di un’industria su misura per gli uomini e non viceversa.” Segue a pagina 26