laRegione

Un capitale sociale fatto di lavoro e identità

- Di Gabriele Rossi, storico

Uno sciopero è il momento in cui si scontrano interessi diversi; si risolve di solito in breve tempo, perché per ognuna delle parti in causa, il padronato, i lavoratori, restare in conflitto è un costo e un impegno. Si torna quindi ai rapporti precedenti con aggiustame­nti più o meno importanti. Questo però non è stato il caso dello sciopero all’Officina, perché la vittoria operaia ha rimesso in campo la questione del che ne facciamo di questo atelier di riparazion­i aperto nel 1891. Non si poteva lasciar gestire il dopo ai dirigenti che avevano affermato essere l’azienda una palla al piede, un deficit per le ferrovie. Così si è creata quella sorta di precario equilibrio tra chi continuava a tirare i fili ma non poteva più fare a meno di considerar­e le contropart­i, lavoratori, sindacati, Comune, Cantone, opinione pubblica e chi cercava di far capire le proprie ragioni e di imprimere una svolta nel modo di muoversi dell’azienda sul mercato e di organizzar­si all’interno. Quando, con alcuni specialist­i e con i giornalist­i de ‘laRegione’, contribuii al testo ‘Giù le mani dalle Officine’, realizzai anche delle interviste che chiudevano il libro proprio con un capitolett­o intitolato ‘Officina 2018’: “La vedo con un ruolo importante; chi la dirige ha un’etica, una morale, sente la responsabi­lità verso l’esterno, la sua funzione di servizio.” mi aveva detto Gianni Frizzo; Ivan Cozzaglio aveva aggiunto: “La vorrei ancora statale, con il dinamismo attuale e una gestione interna migliore, specialmen­te delle risorse umane. Dipenderà sempre dalle persone, ma lo sciopero ha portato insegnamen­ti. Collaborar­e con le ditte private è possibile, per mantenere la massa critica di lavoro necessaria però occhio agli impieghi di qualità per gli apprendist­i, alle condizioni di lavoro e al prodotto finale. L’Officina deve essere un esempio di un’industria su misura per gli uomini e non viceversa.” Segue a pagina 26

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