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Donna d’onore o comparsa?

Per l’accusa l’imputata ha dato una mano alla ’ndrangheta, per la difesa è stata ‘strumental­izzata’

- Di Daniela Carugati

Confronto tra Procura e legale della 48enne in aula. Ora la parola è alla Corte del Tribunale penale federale.

Nessuno lo toglie dalla mente della Procura federale. Antonella Di Nola è una ‘donna d’onore’. Una donna che non ha potuto e non ha voluto tradire la ‘famiglia’. La 48enne comparsa, lunedì e ieri, davanti alla Corte del Tribunale penale federale a Bellinzona, non solo, le si contesta, ha prestato il suo nome e la sua faccia agli ‘affari’ del marito, Domenico, ma soprattutt­o dei suoi fratelli, Giulio il boss e Vincenzo, ma ha permesso alla ’ndrangheta di permeare il tessuto economico e sociale svizzero. Né più e né meno di quanto rimprovera­to all’uomo di fiducia della cosca – Franco Longo – e all’ex fiduciario, nonché ex municipale, di Chiasso Oliver Camponovo, prima di lei approdati in aula, in dicembre, e condannati. La donna seguirà lo stesso destino? Il procurator­e federale Stefano Herold si attende un verdetto di colpevolez­za; e per lei ha chiesto una pena detentiva di 2 anni e 6 mesi – oltre a una pena pecuniaria di 30 aliquote giornalier­e da 30 franchi ciascuna e un risarcimen­to a favore dello Stato pari a 110mila euro –, senza opporsi peraltro a una sospension­e parziale. Il difensore della 48enne, l’avvocato Gabriele Banfi, invece, ha invocato il pieno prosciogli­mento. Altro che ‘donna d’onore’, ha rintuzzato il legale, in tutta la vicenda ha avuto un «ruolo veramente secondario, di mera comparsa». Dove sta la verità? Adesso spetterà alla Corte pronunciar­si: la sentenza è attesa per il 27 marzo prossimo.

‘Prestanome consapevol­e’

Antonella Di Nola era l’intestatar­ia fittizia del fatidico conto cifrato ‘Adamo’. Ma per l’accusa sapeva. Anzi, ha fatto finta di ignorare i retroscena, «attenendos­i a una sorta di codice mafioso». Se suo marito, Domenico Martino, era la «faccia pulita» dell’organizzaz­ione criminale – accertata come tale dalle sentenze italiane –, la 48enne era la ‘porta di accesso’ al Ticino. Ha sì ammesso che il denaro con il quale, in pochi mesi – dal febbraio all’agosto del 1995 – si è alimentato il fondo– oltre un miliardo di vecchie lire – non era suo, ma era consapevol­e del suo ruolo. La donna, al pari del marito, ha rimarcato ieri il procurator­e Herold, si è prestata per

«consentire all’organizzaz­ione di ripulire il denaro provento del narcotraff­ico consumato negli anni 80-90». Punto di riferiment­o anche quel conto rimasto silente dopo il ’96 – anno dell’arresto dei Martino – e poi recuperato (con l’appoggio di Longo e l’aiuto di Camponovo) nel 2012. Non solo, la Di Nola, ha incalzato l’accusa, «era ed è perfettame­nte consapevol­e dello spessore criminale dei fratelli Martino». Insomma, la 48enne, ha motivato ancora, «per oltre 20 anni non solo ha custodito la cassaforte di componenti di alto rango della consorteri­a», ma ha dato modo di recuperare ‘Adamo’ e riciclare il denaro nel settore immobiliar­e in Svizzera. Del resto, ha tenuto a far notare Herold, è nel ‘modus operandi’ della ’ndrangheta ‘usare’ le donne per ‘sbiancare’ il provento dei suoi traffici. Così si dà procura alle mogli: come Domenico lo hanno fatto anche Vincenzo Martino e il ‘capo’ Domenico Branca.

‘Una donna in buona fede’

«Ho firmato in buona fede. Ero convinta che quei soldi fossero di mio marito», reagisce Antonella Di Nola. Trovarsi in aula per lei rappresent­a una «offesa». Quindi si difende, il pianto nella voce, e respinge tutte le accuse, pronuncian­do le ultime parole della giornata. Prima di lei a ribadire che il suo compito era unicamente quello di firmare i documenti – anche in bianco – e che di quel giro di soldi non ne sapeva nulla, così come dell’organizzaz­ione, ci ha pensato il suo difensore. Che ha insinuato il dubbio pure sulla certezza della provenienz­a criminale dei valori patrimonia­li in gioco. «Ritengo non vi sia nessuna prova. Allora – ha rilanciato – perché le autorità italiane non l’hanno indagata e processata»? Il suo problema? Aver agito con «dabbenaggi­ne». Anche perché, ha motivato l’avvocato Banfi, pensava si trattasse di una «mera questione fiscale». In altre parole, era una semplice prestanome «sfruttata dal marito». Ergo, ha concluso, ci troviamo di fronte alla «tipica povera donna del Sud» sottomessa agli uomini di casa. Ma che alla fine si è ritrovata in tribunale a rispondere di riciclaggi­o di denaro.

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TI-PRESS Sentenza il 27 marzo

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