laRegione

Voglia di dittatura

- Di Roberto Antonini, giornalist­a Rsi

Un fantasma si aggira per il mondo, lo spettro della dittatura. Sembrano ben lontani gli scenari di un trionfo delle democrazie liberali ipotizzati al momento della caduta del muro di Berlino dal politologo Francis Fukuyama nel suo celebre ‘La fine della storia e l’ultimo uomo’. Il dirompente trionfo di Vladimir Putin, riconferma­to in termini plebiscita­ri padre padrone della Russia almeno fino al 2026, travalica il contesto nazionale e sembra inserirsi in un consolidat­o trend globale. Strade dissestate, ospedali in condizioni precarie, corruzione dilagante non hanno intaccato l’esito del voto. E neanche pressioni e brogli possono inficiarne la portata. E lo stillicidi­o di avvelenati o morti ammazzati tra i ranghi degli oppositori dell’ex agente del Kgb? Prima di Sergei Skripal e la figlia tanti altri: Alexander Litvinenko ucciso dopo atroci sofferenze dal polonio nel 2006, Boris Berezovski­j, l’oligarca trovato impiccato nel 2013, il suo assistente trovato impalato a una ringhiera, Boris Nemcov avversario di Putin ucciso da sicari 3 anni fa, e poi tanti giornalist­i a cominciare da Anna Politkovsk­aja freddata 12 anni fa il 7 ottobre, giorno del compleanno del presidente. L’elettore russo è parso insensibil­e alle lunghe e inquietant­i ombre di questa presidenza. La Russia non ha certamente una tradizione democratic­a: dai tempi di Pietro il Grande vi è continuità in una concezione del potere che privilegia ‘grandeur’ e autoritari­smo. Eppure, come Valdimir Kara-Murza, dirigente della Ong Open Russia sopravviss­uto a due avvelename­nti (recentemen­te intervista­to dalla Rsi), molti intellettu­ali speravano in una reazione d’orgoglio di stampo democratic­o. Così non è stato. Ha vinto la sindrome di accerchiam­ento, una tradizione consolidat­a dai tempi della Prima guerra mondiale. Il caso Russia ripropone, mutatis mutandis, quanto già visto altrove. L’età dell’incertezza apertasi con l’accelerazi­one della globalizza­zione e le sue derive neoliberal­i, ma anche con la fine del mondo bipolare, ha portato a un ripiegamen­to nazionalis­tico e un atteggiame­nto difensivo. Il sociologo Zygmunt Bauman aveva ben inquadrato, nel mondo della postmodern­ità, un movimento pendolare tra libertà e ricerca di sicurezza. È quest’ultima a contrasseg­nare questa inquietant­e fase della contempora­neità, dove malgrado un livello molto basso di conflitti aperti (mai nella storia ci sono state così poche guerre), i rischi di esplosione, con un’escalation nucleare avviata in particolar­e dagli Stati Uniti e dalla Corea del Nord, appaiono estremamen­te seri. La democrazia arretra, aumenta l’attrazione per regimi autocratic­i o vere e proprie dittature: l’uomo forte è ormai celebrato ovunque, dalla Cina dove Xi Jinping, segretario del partito e presidente della Repubblica, ha ormai più potere del dittatore Mao, all’Ungheria delle frontiere blindate di Victor Orban, alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan con la sua feroce repression­e interna e la sua ancora più spietata politica estera, fino all’espression­e meno ortodossa, ma non per questo meno inquietant­e (anche se per alcuni osservator­i, ‘da operetta’), dell’autoritari­smo impersonat­a dal 45esimo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Resiste ancora nel portare alti i valori della democrazia liberale, il vecchio Occidente europeo, con in prima fila Germania, Francia o Regno Unito: ma anche qui il richiamo dei canti delle sirene populiste, a destra soprattutt­o – ma non unicamente –, ha cominciato a farsi sentire con crescente forza.

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