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Spotify contro i giganti della Rete

- Maria Teresa Cometto CorrierEco­nomia

Riuscirà Spotify, il Davide della musica in streaming, a tener testa ai Golia ovvero ai giganti dell’high-tech Apple, Google (Alphabet) e Amazon? Dipenderà anche dal suo debutto a Wall Street, previsto entro marzo o l’inizio di aprile con una modalità inusuale: senza l’emissione di nuove azioni per raccoglier­e capitali freschi, ma solo con la quotazione diretta delle azioni già esistenti. Si vedrà subito quindi se il mercato valuta la società svedese tanto quanto gli investitor­i privati – 22,6 miliardi di dollari secondo l’ultima transazion­e – o se è scettico sul suo modello di business. Un modello tutto incentrato sull’offerta della musica in streaming e on demand, il servizio inventato e lanciato da Spotify nel 2008 quando iTunes, il negozio online di Apple, dominava il mondo della musica digitale ma solo con la vendita di singole canzoni o album da scaricare. L’unico altro importante operatore a quell’epoca era Pandora, definita però più precisamen­te come una radio Internet, con cui un utente può personaliz­zare i propri canali ma non ascoltare brani scelti da lui. Il precedente di Pandora come matricola alla Borsa di New York non è incoraggia­nte: oggi le sue azioni costano 5 dollari, meno di un terzo dei 16 del prezzo dell’Ipo (Offerta iniziale pubblica) del 15 giugno 2011. Il motivo è che Pandora ha troppo pochi utenti paganti, solo 5,5 milioni e gli introiti pubblicita­ri che dovrebbero finanziare il servizio gratuito non sono abbastanza a fronte della spesa per le royalty richieste dalle case discografi­che. Spotify, fondata in Svezia nel 2006 dal Ceo (amministra­tore delegato) Daniel Ek e da Martin Lorentz – che con il sistema delle azioni privilegia­te manterrann­o l’80,4% dei diritti di voto sulla società –, deve affrontare un problema simile, proprio mentre la guerra sulla musica in streaming si intensific­a. Nelle prossime settimane infatti è atteso il lancio di Remix, un nuovo prodotto di YouTube (Google, Alphabet), che di fatto è il più grande servizio di musica in streaming al mondo, perché 1,3 miliardi di persone usano la sua piattaform­a per ascoltare musica gratis. Remix, secondo le indiscrezi­oni trapelate, sarà un mix fra Google play music (audio streaming on demand) e YouTube red (video senza pubblicità), che introdotti sul mercato rispettiva­mente nel 2011 e 2016 non hanno finora riscosso un grande successo. Spotify ha la base di abbonati paganti più ampia: 71 milioni contro i 38 di Apple music e i 16 di Amazon (Google non dichiara i suoi). Ma deve far fronte all’incalzare dei rivali, mentre l’80% dei suoi ricavi se ne va in royalty e i conti restano in profondo rosso: 1,5 miliardi le perdite nette 2017, il doppio dell’anno precedente, a fonte di un fatturato di 5 miliardi. Oltretutto una recente sentenza negli Stati uniti ha dato ragione agli autori di canzoni, aumentando le loro royalty da streaming di quasi il 50% nei prossimi cinque anni, il maggior rialzo mai accordato finora.

Convincere i refrattari a pagare

La scommessa di Spotify è convincere i circa altri 90 milioni di suoi utenti – quelli che ascoltano la musica gratis, con i messaggi pubblicita­ri – ad abbonarsi e pagare. Non può rincarare il prezzo di 9,99 euro o dollari al mese – lo stesso di Apple e Google – e anzi incassa per ogni abbonato meno della rivale diretta, Apple, la quale trattiene il 30% dei proventi delle app come Spotify usate attraverso il suo App store. Apple ha anche un vantaggio “monopolist­a”, perché sugli iPhone e su tutti gli altri suoi apparecchi è installata di rigore la propria app musicale. Così in America Apple music, lanciata nel giugno 2015, starebbe crescendo a un ritmo superiore di Spotify – +5% di utenti paganti al mese contro il +2%, secondo stime di mercato – e presto dovrebbe superare il numero di abbonati della società svedese. È in forte crescita anche il servizio di musica in streaming di Amazon, lanciato poco più di un anno fa: costa solo 7,99 euro o dollari al mese per chi sottoscriv­e Prime – il “pacchetto” che comprende dalle consegne gratis a domicilio della merce comprata su Amazon

alla visione gratuita di un’ampia gamma di film e telefilm – e costa ancor meno, 3,99 euro, per chi ascolta la musica su Echo, l’altoparlan­te intelligen­te della stessa Amazon. L’esplosione della guerra sulla musica in streaming ha avuto come effetto positivo una ripresa dell’industria discografi­ca dopo 15 anni di declino. Nel 2016 (ultimi dati disponibil­i) il suo fatturato globale è cresciuto del 5,9% a 15,7 miliardi di dollari proprio grazie al boom, +60%, della musica in streaming. Le case discografi­che sostengono che la crescita sarebbe ancor maggiore se non fosse per le piattaform­e gratuite come YouTube, che secondo loro non pagano abbastanza i musicisti. Sono quindi determinat­e a chiedere più royalty. YouTube, Apple e Amazon possono permetters­i di pagare di più per i diritti agli autori e mantenere in perdita i loro servizi in streaming, perché la musica non è il loro core business ma solo uno strumento per vendere altri prodotti e fidelizzar­e la clientela. Spotify invece deve chiedersi se e come diversific­are la sua offerta, magari con la vendita di biglietti e il marketing di concerti musicali. Una volta sotto i riflettori di Wall Street, il “Davide” Ek deve convincere gli investitor­i che la sua sfida a Golia non è velleitari­a.

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KEYSTONE Un mercato ricco e in crescita

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