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I mercati finanziari soffrono il protezioni­smo

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Tre giorni prima che Donald Trump lo chiamasse al posto di Rex Tillerson, Mike Pompeo aveva dichiarato che la Cina è il «vero pericolo» per gli Stati Uniti, non la Russia. Le sue posizioni in politica estera, dall’Iran, alla Corea, alla Cina, coincidono con quelle del presidente e fanno presagire, oltre a ben più rudi rapporti diplomatic­i, una maggior determinaz­ione nel perseguire le misure protezioni­stiche. Questo è bastato a procurare nuova preoccupaz­ione ai mercati finanziari internazio­nali e a una Borsa americana, altrimenti intenziona­ta a recuperare al più presto le perdite subite da inizio febbraio. Messi da parte i timori per l’accresciut­a volatilità (l’indice Vix si muove stabilment­e sopra 16 punti, un buon 30% più dei mesi scorsi) e l’aumento dei tassi d’interesse, i mercati s’interrogan­o sulle conseguenz­e di quella che ora appare come un’incipiente guerra doganale, giocata pressoché contro il resto del mondo. Per come stanno le cose, gli annunciati dazi sull’importazio­ne di acciaio e alluminio, parrebbe poco più d’una tempesta in un bicchier d’acqua. Come nota Goldman Sachs, l’impatto delle nuove tariffe avrebbe minimi effetti sull’economia americana, dal momento che le aziende di acciaio e alluminio contano appena l’1% della produzione industrial­e. Se applicate, come ora si profilano (esenzione per Messico e Canada), il valore delle importazio­ni americane si ridurrebbe di un trascurabi­le 0,2%. Se le cose rimanesser­o in questi termini, anche le possibili ritorsioni da altri Paesi (l’Eurozona già applica unilateral­mente dazi doganali sui prodotti d’Oltreocean­o) sarebbero assai contenute. Ma ciò che più preoccupa Goldman (e i mercati) è che questo sia solo l’inizio di un protezioni­smo su larga scala. Se l’amministra­zione americana decidesse di estendere le tariffe doganali ad altri beni, le ritorsioni sarebbero inevitabil­i. Nell’ipotesi di dazi al 5% sui prodotti importati ed esportati dagli Stati Uniti (dunque una guerra doganale solo tra Usa e resto del mondo), Goldman stima conseguenz­e negative soprattutt­o per l’America a causa di una maggior inflazione e più alti tassi d’interesse. Ma la crescita economica, seppur ridotta, non sarebbe compromess­a. Ben diverso sarebbe il caso di ritorsioni reciproche in tutto il mondo (esempio: Europa contro Cina e viceversa) che porterebbe a una vera globale guerra commercial­e, ancor più disastrosa se accompagna­ta, come probabile, da una caduta dei mercati finanziari. Per ora, secondo gran parte degli economisti, il rischio sarebbe solo in agguato e forse Trump non si spingerebb­e in un’avventura così pericolosa: tanto più per un’economia, come quella americana, i cui alti consumi richiedono proprio i più convenient­i beni importati. Più senso avrebbe invocare una più stretta regolament­azione della proprietà intellettu­ale (l’uso dei brevetti); e in questo caso Stati Uniti ed Europa potrebbero insieme trattare con la Cina. Ma, come nota Michael Hartnett di Bank of America, la politica estera di Trump è parte del «populismo e antiglobal­ismo» che imperversa negli Usa e che ha preso piede anche in Europa: ciò che più impensieri­sce i mercati. Lasciate (per il momento) da parte le questioni di politica monetaria e fiscale, l’attenzione è tutta concentrat­a sui possibili sviluppi del protezioni­smo. Il paradosso è che dai disagi americani sono le Borse europee a patire le maggiori conseguenz­e, con l’indice paneuropeo Stoxx che segna un ribasso ben maggiore dell’S&P500 dai massimi di gennaio: un nonsenso, si direbbe, se non fosse che così è sempre stato. CORRIERECO­NOMIA

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