Kering, in Svizzera nessuna accusa
Il legale del gruppo precisa: presunte malversazioni dell’ex manager a monte degli illeciti ipotizzati A denunciare l’uomo, per fatti avvenuti dal 2013, è stata la società stessa nel 2016. L’inchiesta, tuttavia ancora contro ignoti, à stata aperta dal Mi
Nel procedimento aperto dal Ministero pubblico della Confederazione nel giugno 2017, per ora contro ignoti, il gigante della moda non figura come imputato, ma come parte lesa.
Presunto ‘carnefice’, ma pure – altrettanto presunta – vittima. Si delineano pian piano i contorni delle vicende penali che interessano il gruppo parigino Kering, proprietario della Luxury Good International Sa con sede a Cadempino. Mentre il colosso della moda è sul banco degli imputati in Italia e Francia, non è così in Svizzera: nel procedimento penale – aperto nel giugno 2017 e per ora contro ignoti, come specificato a ‘laRegione’ dal Ministero pubblico della Confederazione (Mpc) – per i reati di riciclaggio di denaro e falsità in documenti, il gruppo del lusso sarebbe la parte lesa. Quanto emerso sin qui sarebbe una «bufala storica», secondo l’avvocato Paolo Bernasconi, il cui studio legale patrocina il gruppo. Mentre le autorità giudiziarie milanesi e parigine stanno indagando su ipotetiche frodi fiscali, nell’ordine dei miliardi di franchi, di cui il gigante si sarebbe macchiato, a far scattare gli inquirenti elvetici è stata invece una denuncia, effettuata proprio dallo studio di Bernasconi nel 2016 – nonostante il procedimento sia partito diversi mesi dopo. La segnalazione riguarda presunte malversazioni compiute a partire dal 2013 dall’avvocato calabrese Carmelo Rotondaro, ex manager allontanato nel frattempo da Kering. «Dopo le verifiche iniziali, l’Mpc ha sequestrato numerosi conti bancari in Svizzera e all’estero» spiega Bernasconi. Le varie inchieste sarebbero tuttavia intrecciate: Rotondaro, che a gennaio si è visto sequestrare dalla Guardia di finanza circa sette milioni di euro di beni, sarebbe secondo nostre indiscrezioni proprio la ‘gola profonda’ che avrebbe portato all’avvio delle indagini in tema tributario: in Italia è ipotizzata un’evasione fiscale da parte di Gucci – che fa parte di Kering – stimata in 1,3 miliardi di euro. Dalla Francia l’accusa è ancor più pesante: si parla di 2,5 miliardi.
L’Ong Public Eye rilancia il dibattito etico sul regime tributario in vigore in Ticino
Proprio per effettuare gli accertamenti sui presunti reati commessi dall’ex manager, nel dicembre 2016 è giunta la rogatoria – avviata in Svizzera e in altri sei Paesi dalla Procura di Milano –, firmata dal pm Stefano Civardi. Il titolare delle indagini – come pure di quelle relative alla presunta maxi-effrazione tributaria – contesta a Rotondaro il reato di omessa dichiarazione dei redditi: fissando la sua residenza nel Principato di Monaco (che non pretende imposte sulle persone fisiche) e iscrivendosi al registro degli italiani residenti all’estero, mentre, in realtà, sarebbe stato residente a Milano, avrebbe truffato il Fisco. Nel frattempo, le condizioni quadro che hanno permesso l’insediamento in Ticino di numerosi brand di alta moda hanno portato l’Organizzazione non governativa (Ong) bernese Public Eye a definire «emblematico» il caso Kering. L’Ong si era scagliata contro la ‘Fashion Valley’ ticinese già a inizio 2016, prima delle vicende penali del gigante del lusso. E proprio quest’ultimo è stato indicato come uno dei principali esempi di società che hanno sfruttato le “pratiche di ottimizzazione fiscale aggressiva” e il “cannibalismo fiscale” ticinese. A oltre due anni – e dopo il polverone sollevato nei giorni scorsi –, l’esperto in materia dell’Ong, Olivier Longchamp conferma quanto sostenuto: «Non conosciamo i dettagli dell’inchiesta. Per noi è però chiaro che le condizioni fiscali ticinesi sono state il fattore decisivo che hanno portato Kering a insediarsi nel cantone. Grazie al quadro legale, la società può rimpatriare i guadagni realizzati nei Paesi di distribuzione e di produzione e fiscalizzarli a un tasso molto basso». Longchamp si spinge a parlare di «pratiche illegittime» – ma non illegali, specifica –, accusando questi colossi di sfruttamento: «Per noi è un problema che queste società di moda, grazie alle condizioni svizzere, possano versare ai propri azionisti milioni e allo stesso tempo non garantire salari dignitosi nei Paesi di produzione». Se legalmente è quindi tutto a posto, il dibattito permane etico.