Internamento sì, ma ‘a vita’?
Giovedì scorso, il direttore Caratti si chiedeva: «Internamento, se non ora quando?». Intendeva (…)
Segue dalla Prima (…) evidentemente il cosiddetto «internamento a vita», introdotto nel nostro Codice penale a seguito dell’infausta iniziativa costituzionale, approvata nel febbraio 2004. Governo e parlamento avevano infatti raccomandato di respingerla. Essa esige che «il criminale […] estremamente pericoloso e classificato come refrattario alla terapia deve essere internato a vita. Liberazioni anticipate e permessi di libera uscita sono esclusi». E che il riesame è possibile solo «qualora nuove conoscenze scientifiche permettano di dimostrare che il criminale può essere curato». Al processo per il terribile assassinio multiplo di Rupperswil, la procuratrice Barbara Loppacher, che ha condotto la difficile inchiesta (per mesi la polizia non aveva indizi e sono stati anche offerti centomila franchi di ricompensa), ha chiesto oltre all’ergastolo anche l’«internamento a vita». Il tribunale ha accettato la richiesta della massima pena prevista dal nostro Codice penale. Per la pericolosità dell’imputato non ha però ordinato l’«internamento a vita», ma l’internamento «ordinario», che prevede la possibilità di riesami periodici. Prima di tutto va quindi chiarito che Thomas N. dopo aver scontato l’ergastolo (20 anni di carcere) sarà internato e probabilmente non potrà più godere della libertà. Il dibattito sull’«internamento a vita» si rivela dunque come un elemento di disturbo nel nostro sistema giuridico; atto a creare delusione e incomprensione in chi si aspetta che venga applicato come garanzia estrema di sicurezza. L’«internamento a vita» è già stato deciso cinque volte dai tribunali, ma per quattro volte è stato annullato dal Tribunale federale (una volta il condannato ha rinunciato all’appello). Perché l’«internamento a vita» non è stato applicato oggi e non ha mai superato il controllo del Tribunale federale (come non avrebbe possibilità di fronte alla Corte europea dei diritti umani Cedu)? Che una persona possa essere internata senza possibilità di revisione, se non per «nuove conoscenze scientifiche» è già una posizione insostenibile: mentre la privazione della libertà è una punizione stabilita dal tribunale, in base a fatti accertati e alla gravità degli stessi, l’internamento è basato sulla pericolosità del soggetto, condizione quindi da controllare periodicamente. Ancora più problematico è stabilire che il criminale è «refrattario alla terapia», inteso per sempre. Uno psichiatra serio potrà esprimersi sulle possibilità terapeutiche attuali, ma non si arrischierà mai ad affermare che una persona sarà refrattaria alla terapia anche in futuro. E per legge ci vogliono due perizie indipendenti che giungano a questa conclusione. Anche l’iniziativa per l’«internamento a vita per criminali sessuomani o violenti estremamente pericolosi e refrattari alla terapia», firmata da più di centonovantamila cittadine e cittadini e approvata da popolo (56%) e Cantoni l’8 febbraio 2004, si rivela come una delle purtroppo sempre più numerose iniziative che propongo soluzioni apparentemente facili, ma che si rivelano di fatto inapplicabili. Anche se in questo caso la proposta è nata probabilmente in buona fede, iniziative come questa tendono a distruggere la fiducia delle cittadine e dei cittadini nel nostro sistema politico e giudiziario (vedi «Distruggere le nostre tradizioni democratiche - Istruzioni per l’uso», il Mancino, 7 marzo 2018, bit.ly/ilMancino703). Una riflessione su questo abuso delle nostre tradizioni democratiche s’impone! E per tranquillizzare chi fosse ancora convinto che il problematico «internamento a vita» potrebbe servire a proteggere la nostra sicurezza, la ‘SonntagsZeitung’ dell’11 marzo scorso ha pubblicato i risultati di un’indagine di Thomas Freytag, direttore dell’Ufficio per l’esecuzione delle pene del Canton Berna: «Negli ultimi dieci anni le autorità hanno concesso la libertà condizionata solo al due percento delle persone sottoposte all’internamento ordinario. Nel 2015 sono state liberate due persone, nel 2016 una e nel 2017 nessuna. I pochi che raggiungono la libertà sono praticamente sempre anziani, malati e non più in grado di compiere gravi delitti: così l’internamento ordinario è de facto un internamento a vita».