Ti conosce meglio lui
Dimmi a chi metti il ‘like’ e ti dirò chi sei. È tanto semplice quanto diabolico uno degli algoritmi usati dalla Cambridge Analytica, la società britannica finita al centro della bufera assieme a Facebook per l’uso improprio dei dati di 50 milioni di utenti del social network. Semplice perché il modello, sviluppato da un ricercatore di Cambridge, riesce ad anticipare le risposte degli individui semplicemente prendendo in considerazione i ‘mi piace’ messi sui post. Con 68 è possibile prevedere il colore della pelle, l’orientamento sessuale, l’appartenenza a un partito (repubblicano o democratico, in questo caso), l’intelligenza, il consumo di alcol e sigarette, l’uso di droga e lo stato civile dei genitori. Continuando a perfezionare il software, il ricercatore ha stabilito che con soli 10 like è possibile conoscere una persona meglio dei suoi colleghi di lavoro, 70 meglio dei propri amici reali, 150 meglio dei genitori, 300 meglio del partner e con qualche like in più addirittura meglio di quanto si conosca la persona stessa. Informazioni, quelle a disposizione della società britannica, raccolte tramite un’applicazione sviluppata da un altro ricercatore, Aleksandr Kogan, scaricata da 270mila persone e collegata al loro account Facebook. Un vero cavallo di troia per circa 50 milioni di altri utenti, ‘spiati’ tramite i rapporti di amicizia con gli utenti che avevano installato l’app. Come la Cambridge Analytica abbia poi usato quanto raccolto è tuttora da verificare. Di sicuro i responsabili della società britannica sostenevano di essere in grado di creare campagne di marketing micro-mirate sulle emozioni degli utenti. Insomma: di riuscire a toccare le corde giuste per condizionare le scelte delle persone. Condizionare, non cambiare. Perché che i social media possano influire così tanto sulle persone «è una delle ‘fake news’ di cui si parla tanto negli ultimi tempi», sostiene il professor Lorenzo Cantoni dell’Università della Svizzera italiana. «È inverosimile pensare a una specie di potere magico dei social che permetta di
mutare radicalmente le convinzioni degli utenti, spostando masse di elettori da un lato all’altro di uno schieramento politico». Quello che possono fare è però sfruttare il meccanismo per cui tutti, psicologicamente, tendiamo a ritenere vere solo le affermazioni che confermano la nostra visione del mondo, scartando invece quelle che la confutano. «Le reti sociali sono perlopiù organizzate in modo da farci vedere ciò che più c’interessa e ci piace – commenta Cantoni –. Ciò crea inevitabilmente delle ‘bolle’ informative in cui siamo meno (o per nulla) esposti a tematiche o punti di vista differenti. Questo contesto tende a rinforzare le opinioni che abbiamo su certi temi: se sono esposto (quasi) esclusivamente a opinioni di chi la pensa come me, tenderò a credere che (quasi) tutti la pensino così. Si tratta di una dinamica che opera anche nell’ambito delle visioni politiche». Il meccanismo funziona però «soprattutto come rinforzo di opinioni già acquisite». Proteggersi è comunque possibile: «È importante avere una dieta informativa ricca, direi ‘mediterranea’, e non affidarci solo alle condivisioni sui social fatte dalle persone che seguiamo. I social media possono senz’altro essere una delle fonti d’informazione, ma non l’unica e non la principale. È una questione di auto-educazione. È una questione di educazione delle nuove generazioni, che devono essere aiutate a saper meglio valutare la qualità delle fonti informative».