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Gli ‘Stranamore’ alla Casa Bianca

- Di Aldo Sofia

Adesso al vertice della diplomazia e della sicurezza americana ci sono Donald Trump, Mike Pompeo neosegreta­rio di Stato, John Bolton appena nominato consiglier­e per la Sicurezza nazionale. E dei tre il più ‘moderato’ sarebbe Trump. Aggiungete­ci il generale ‘superfalco’ James Mattis alla difesa, e l’incendiari­a Nikki Haley sulla poltrona Usa alle Nazioni Unite. Davvero un poco tranquilli­zzante quadretto, il capo della superpoten­za nucleare che si affida ai consigli di un gruppo di guerrafond­ai. Fra i quali c’è chi di guai ne ha già combinati abbastanza, risultando addirittur­a correspons­abile della nascita del terrorismo autoprocla­matosi islamico, che è tornato a colpire ancora pochi giorni fa in Francia. Lo dice la storia. John Bolton, ex ambasciato­re all’Onu e che in futuro avrà dunque ‘l’orecchio del presidente’ per le questioni della sicurezza americana, è infatti uno dei massimi teorici dell’uso della forza da mettere al servizio della trumpiana ‘America first’. All’epoca di Bush figlio, fu Bolton il più ‘con’ dei ‘neocon’. Cioè del team che convinse l’allora capo della Casa Bianca a realizzare il disegno imperiale che consisteva (dopo l’undici settembre) nel decidere l’invasione dell’Iraq, abbattere il dittatore Saddam Hussein, sfasciare tutti gli apparati militari e amministra­tivi del Paese, e instaurare la democrazia delle baionette a Baghdad. Fu lui a insistere testardame­nte sulle ‘armi di distruzion­e di massa’ (mai trovate) in mano al rais arabo, e in sostanza a costringer­e il ministro degli Esteri Colin Powell all’umiliante e ridicola esibizione di un paio di fialette che avrebbero dovuto dimostrare la pericolosi­tà di Saddam Hussein per l’intero Occidente. Risultato, l’invasione militare e poi il collasso dello Stato iracheno, una delle guerre più sanguinose nella storia moderna del Vicino Oriente, la nuova dittatura (stavolta sciita, e collegata con l’Iran) a Baghdad, un Paese profondame­nte lacerato, la sostanzial­e sconfitta del disegno statuniten­se, e la rivolta di una comunità sunnita dalle cui viscere sono poi nati il messianism­o fanatico e il terrore dello Stato Islamico, all’inizio surrettizi­amente sostenuto con fondi e armi dall’Arabia Saudita, oggi il principale alleato di Trump nella regione insieme a Israele (a cui la Casa Bianca ha lasciato mani libere sulla questione palestines­e). Se anche gente come John Bolton, con le sue evidenti e pesanti responsabi­lità storico-politiche, viene reintrodot­ta nella stanza dei bottoni, c’è davvero di che preoccupar­si, e non sarà certo l’ipotizzato vertice di Trump col nordcorean­o Kim a tranquilli­zzare. Del resto, una fissazione in comune ce l’hanno quelli del cerchio magico attorno a Trump: la voglia di regolare eventualme­nte anche con le armi la questione dell’Iran e dell’accordo sul nucleare che a torto il presidente si ostina a definire “il peggior accordo mai sottoscrit­to dagli Stati Uniti”. L’attacco militare a Teheran e al regime degli ayatollah (peraltro ancora camuffato anche con ragioni ‘umanitarie’) è dunque più vicino, o più verosi- mile, anche per la soddisfazi­one dell’alleato israeliano. Con la prospettiv­a di un incendio più devastante di quello che continua a incenerire la Siria e dintorni. Scenario scontato? Forse no. Forse l’ondata di ragazzi americani che hanno manifesto in oltre ottocento città americane contro il facile uso delle armi in patria, rappresent­a un messaggio anche ai troppi ‘dottor Stranamore’ portati da Trump al 1’600 di Pennsylvan­ia Avenue di Washington.

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