Fino a gennaio le cose parevano semplici...
Non è facile di questi tempi fare soldi in Borsa. L’indice S&P s’è trascinato da quasi due mesi poco sopra la soglia dei 2’700 punti e giovedì è caduto a 2’643, che significa un calo dell’8% dal record di fine gennaio. E l’europeo Stoxx va ancora peggio, segnando perdite che sfiorano il 9%. Fino a gennaio le cose parevano semplici. Si comprava e basta: un indice, un fondo azionario o un Etf, meglio se a leva. E il gioco era proseguito, proficuo e ininterrotto, da oltre 16 mesi. Ma ora che fare?
Ora che fare? Facebook
fa tremare il settore
La tentazione di continuare come prima è rimasta quasi intatta. E difatti ci hanno provato due settimane fa i grandi e i piccoli investitori, facendo affluire sulla Borsa americana oltre 43 miliardi di $ (stime di Bank of America), più di quanti ne fossero usciti nella prima pesante settimana di febbraio. E, guarda caso, gran parte di quel denaro era finito sulla dozzina di titoli tecnologici che da mesi trainano Wall Street. È andata male. perché lo scandalo Facebook sta facendo tremare il settore. Sfortuna, si dirà. In parte, può essere. Ma il fatto è che le condizioni sono cambiate da due mesi a questa parte: non necessariamente nei fondamentali, benché l’indice di Citi che misura le sorprese macroeconomiche sia in declino da metà febbraio, quanto nella psicologia degli investitori. Si punta ancora sulle Borse e si crede che faranno meglio dei bond in futuro, ma le attese di una più forte crescita economica globale (misurate da BofA) si sono pressoché dimezzate e son tornate ai livelli del giugno 2016, ossia all’incerto clima suscitato dal referendum sulla Brexit.
Ritorno alla realtà
Si potrebbe dire che sono tornate alla realtà: in ogni caso una condizione piuttosto buona, perché l’economia americana e mondiale crescono a ritmi ben più sostenuti di quanto si pensasse solo due anni fa, ma non nella misura entusiasmante che qualcuno s’era immaginato. Soprattutto ci si rende conto che il buono previsto sia stato ampiamente scontato dai mercati azionari. S’era iniziato nel novembre 2016 con l’euforia della promessa rivoluzione Trump, per accorgersi, qualche mese dopo, che non era poi così reflazionistica come si credeva. S’è proseguito con l’eccitazione della riforma fiscale e delle maggiori spese pubbliche negli Usa, per poi realizzare che il processo avrebbe portato a un maggior deficit (e debito) federale e a più alti tassi d’interesse. E s’è capito, più recentemente, che le tentazioni protezionistiche di Donald Trump rischiano di compromettere il buono stato dell’economia mondiale. Tuttavia, i vantaggi fiscali per famiglie e imprese restano intatti, si obietterà. Ma un rialzo di Wall Street del 38% tra novembre 2016 e gennaio 2018 (+22% lo Stoxx) non ha forse scontato tutto il bene possibile? Gli utili delle società americane cresceranno del 20% quest’anno, si potrebbe aggiungere. Ma, una volta incorporati i benefici fiscali, quale sarà il ritmo di crescita? E pure su quell’entusiasmante aumento degli utili del 2018 ci sarebbe qualcosa da dire. Lo fanno notare gli analisti di Ubs, non tacciabili di pessimismo, visto che ancora s’aspettano l’S&P a 3’150 per fine anno. Secondo la banca svizzera, dei 25 dollari per azione attesi in più nel 2018 (+19%) per le 500 società dell’S&P, 13,6 arriverebbero dai tagli fiscali e 3,3 dagli annunciati buyback (acquisto di azioni proprie). La crescita organica degli utili contribuirebbe appena per i restanti 8,5 $, ossia con un rialzo non entusiasmante del 6,5%. Goldman Sachs ha stimato che la liquidità derivante da tagli fiscali, rientro dei capitali e crescita organica degli utili aziendali ammonterebbe a 2’500 miliardi quest’anno: di questi, oltre 650 verrebbero spesi per comprare azioni proprie e altri 1’200 distribuiti agli azionisti. Per gli investimenti resterebbero solo briciole. La conclusione cui perviene Michael Wilson, strategist di Morgan Stanley (a dire il vero, uno che non brilla per ottimismo), è che Wall Street abbia toccato il suo apogeo proprio a gennaio: per quest’anno, almeno.