laRegione

Puigdemont Un caso europeo

- Di Erminio Ferrari

A forza di sentirsi dire che la loro era una “questione interna” alla Spagna, gli indipenden­tisti catalani sono riusciti a imporla all’Europa attraverso una drammatica accelerazi­one degli eventi, qual è il fermo di Carles Puigdemont in Germania. Con finalità opposte, l’arresto dell’ex presidente della Generalita­t era preteso dal governo spagnolo, e pur messo in conto dal movimento separatist­a catalano: Madrid per vedere confermata la propria autorità, ignorando (o forzando) la situazione in cui questa si esercita; gli indipenden­tisti per imporre nel confronto sovranazio­nale non più le proprie rivendicaz­ioni, ma una condizione di minoranza vessata e privata dei propri diritti. Che ci fosse del calcolo era chiaro da tempo: dall’alternanza di emissione e sospension­e del mandato d’arresto internazio­nale da parte della giustizia spagnola, alla disinvoltu­ra con cui Puigdemont per mesi ha varcato frontiere, ben consapevol­e che le polizie dei diversi Paesi seguivano i suoi movimenti. Ma, reclamato o temuto, atteso o sorprenden­te, il fermo di Puigdemont rivela che il controllo degli eventi non è mai quello di chi crede di determinar­li. Madrid, ma sarebbe più corretto dire Mariano Rajoy (al cui servizio pare agire la Procura) ha sì ottenuto il fermo di Puigdemont, anche in virtù del fatto che il Codice penale tedesco contempla un reato analogo a quello spagnolo di “ribellione”, ma non ha ancora a disposizio­ne il ricercato, né la certezza che questo avverrà: i giudici dello SchleswigH­olstein, a cui compete la decisione, potrebbero avere una indipenden­za di giudizio ben maggiore. Una risposta negativa alla richiesta spagnola (e figuriamoc­i la concession­e dell’asilo) sarebbe una sconfessio­ne clamorosa per Rajoy; ma anche la consegna di Puigdemont a Madrid non sarebbe un successo, se non di breve portata: che lo sia o no, Puigdemont diverrebbe il perseguita­to politico più popolare d’Europa, sostituend­osi, nell’immaginari­o mediatico, ai nordirland­esi rinchiusi nelle carceri della Corona, senza neppure il loro debito di sangue. E il Rajoy che oggi si fa forte in Europa della vicinanza di Angela Merkel potrebbe diventare un ospite imbarazzan­te in altre compagnie. Ma anche il calcolo dei separatist­i potrebbe rivelarsi lacunoso. La prospettiv­a di condanne a trent’anni di prigione (è l’intera dirigenza separatist­a a rischiarle) eccede di gran lunga la colpevole leggerezza con cui si sono inventati una indipenden­za pretestuos­a. Ma soprattutt­o, oltre a comportare un costo umano altissimo, annichilir­ebbe la forza del movimento mentre un processo di disincanto e di distacco dalle istanze autonomist­e è già in corso. Dovuto questo a stanchezza, scoramento, timore, ravvedimen­to, frutto anche dell’inerzia implacabil­e con cui lo Stato spagnolo ha proseguito nel riprenders­i pezzi di autonomia. Non si sa come andrà a finire, ma si sa perché. La somma di due inadeguate­zze (e di malafede) non poteva produrre una soluzione, se non di quelle in cui vengono sciolte le migliori intenzioni.

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