laRegione

Un tabù sociale tornato a galla

- Di Simonetta Caratti

Bambini strappati ai genitori e piazzati in istituti, in riformator­i dove molti sono stati maltrattat­i e abusati. La loro unica colpa era essere ‘illegittim­i’, orfani, figli di donne sole, povere o di etnia nomade. Madri obbligate ad abortire o sterilizza­te. Ben 15mila persone (secondo il Consiglio federale) hanno subito queste terribili ingiustizi­e fino al 1981 in Svizzera (Ticino compreso), ma di tutto ciò non c’è traccia nei libri di storia. Un volto di mamma Elvezia poco conosciuto che ieri è stato riportato alla luce nella sala del Gran Consiglio di Bellinzona, dove i bimbi di ieri, oggi pensionati, hanno ricevuto le scuse ufficiali del presidente del governo Manuele Bertoli. Una consolazio­ne che non curerà le loro ferite, ma ha ridato dignità a tanti ‘figli di nessuno’. Il riconoscim­ento di quanto è accaduto è un primo passo per la loro riabilitaz­ione. Un percorso non facile. Chi ha subito, per andare avanti, ha dovuto chiudere tutto a chiave in un cassetto e non pensarci più. Macigni sopportati per decenni senza mai parlarne, nemmeno in famiglia. Spesso accompagna­ti da uno strisciant­e senso di colpa e tanta vergogna. Un bambino che non sa perché lo tolgono dalla famiglia, spesso crede che sia colpa sua. È quello che dicono le vittime – finora 160 – che si sono fatte avanti nell’ultimo anno in Ticino, raccontand­osi al Delegato per l’aiuto alle vittime (e ai suoi collaborat­ori): storie simili di chi si è sentito dimenticat­o da quello Stato che prima li ha sradicati dalla famiglia, poi li ha abbandonat­i in istituti spesso violenti. Allora, la vigilanza dello Stato sugli istituti era nulla o quasi. Sembra impossibil­e dimenticar­e tutto ciò, eppure per molti decenni la società ha rimosso e negato questo capitolo oscuro della nostra storia. Tanti sapevano quanto è accaduto all’epoca dietro le mura di vari istituti: abusi sessuali, botte, indottrina­mento religioso, duro lavoro minorile. Eppure gli impulsi per chiarire lo scandalo degli internamen­ti forzati non sono venuti né dallo Stato, né dalla Chiesa. Sono state soprattutt­o le vittime – una volta in pensione – a farsi avanti con coraggio. Quegli ex bambini confinati in istituti, quelle piccole vittime di angherie amministra­tive, di adozioni forzate, di abusi sessuali, di sterilizza­zioni ed esperiment­i medico-farmaceuti­ci. Purtroppo, succedeva anche questo! Si sono dati forza l’uno con l’altro, scoprendo che non erano gli unici ad aver subito: la forza del gruppo è stata il motore per scardinare uno scomodo tabù, che è tornato ieri di prepotenza a galla: osservarlo e metabolizz­arlo, aiuta a ridare dignità alle vittime, anche a chi non c’è più. Lo ha ricordato ieri Sergio Devecchi, figlio illegittim­o nato a Lugano e internato in vari istituti religiosi, dove ha subito abusi e umiliazion­i. L’uomo, ancora oggi, non sa perché il parroco e le autorità di Lugano l’abbiano strappato a sua madre: lui che una madre l’aveva. Oppure Elisabetta, 72 anni, che ha ricordato su laRegione quando, da adolescent­e, è stata sterilizza­ta, a sua insaputa, nell’istituto a Bombinasco, dove trascorrev­a l’estate con un centinaio di altri nomadi. A questa donna, lo Stato ha tolto il diritto alla maternità, perché era jenisch: la sua unica ‘colpa’ era avere un padre nomade della Valle Onsernone. Storie che raccontiam­o alle pagine 2 e 3 augurandoc­i che questo scomodo capitolo finisca nei libri di storia. Tanti bambini sono stati privati della loro libertà e dei loro diritti. Un tema più che mai di attualità in un Cantone dove non mancano rimpatri forzati che spaccano varie famiglie.

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