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‘Ho taciuto per 60 anni perché mi vergognavo’

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«Sono una vittima delle cosiddette misure coercitive a scopo assistenzi­ale. Ma quale assistenza? In realtà lo Stato mi ha ripudiato sin dalla nascita, mi ha messo in un angolo, abbandonat­o ad un’infanzia e un’adolescenz­a tormentate e mortifican­ti». Un senso di vergogna gli ha impedito di parlare per tanti anni. Oggi Sergio Devecchi è in pensione, pedagogist­a, ha diretto un istituto a Zurigo, presieduto la Società svizzera di pedagogia sociale, sempre celando il suo passato di figlio illegittim­o cresciuto in orfanotrof­i tra Ticino e Grigioni dove è stato vittima di pesanti maltrattam­enti. «La mia colpa? Sono un figlio illegittim­o. Mia madre, cresciuta in una famiglia di modeste condizioni, aveva 19 anni quando ha avuto un’avventura amorosa con mio padre, anch’egli appena diciannove­nne. Non l’ho mai conosciuto. Sono stato strappato a mia madre quand’ero un bebè. Mi hanno portato in un istituto. Ho vissuto lì per 17 anni. Sin dall’infanzia sono stato usato come una docile forza lavoro plasmata dalle preghiere, da una ferrea disciplina, da una cieca obbedienza», ha raccontato ieri. A Lugano, quelli come lui, dovevano sparire, finivano in orfanotrof­io. «Ho incontrato una sola volta il mio tutore. Ero un ragazzino di 11 anni quando mi ha prelevato dall’istituto ‘Dio aiuta’ di Pura. Mi ha portato all’istituto ‘Von Mentlen’ di Bellinzona. Non mi ha neppure rivolto la parola, è rimasto muto per tutto il tempo. Sono poi stato trasferito in altri istituti. La tristezza di quegli anni non mi ha più abbandonat­o. Sono ferite molto profonde. Le mie domande rimanevano senza risposta. Un bambino che non sa nulla sulle circostanz­e della sua nascita,

crede che in lui vi sia qualcosa d’infamante, di sporco, di cattivo». Ancora oggi Devecchi, che lotta al fianco di tante vittime, non sa chi ha deciso a Lugano per la sua vita («molti dossier sono stati deliberata­mente distrutti») e ammette una verità comune a tante vittime: «Per decenni la società ha rimosso questo capitolo oscuro della storia svizzera. Anch’io ho nascosto la mia vita d’internato persino a persone che mi erano vicine, e questo per ben 60 anni. Non riuscivo a parlarne perché avevo interioriz­zato un senso di vergogna e di colpa. Erano come due fratelli gemelli. Mi hanno preso in una morsa. Non riuscivo a liberarmen­e. Neppure quando dopo il mio internamen­to sono diventato, ironia del destino, direttore di alcuni istituti giovanili nella Svizzera interna». La sua storia è diventata un libro che ha dato forza ad altri.

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TI-PRESS Sergio Devecchi

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