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‘Lo chiamavamo il boia, ci riempiva di calci e nessuno faceva niente’

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Aveva solo un mese, quando ha varcato la soglia del suo primo istituto, la Culla San Marco a Faido. Era il 1946. Poi il Von Mentlen a Bellinzona, infine l’istituto Santa Maria a Pollegio. Riccardino (il suo nomignolo di allora che vuole usare) pensava di essere orfano, ma scoprì all’età di 7 anni di avere una famiglia. «Una mattina un’educatrice del Von Mentlen mi presentò una signora, dicendomi che era mia madre, la sera stessa ero in una casa in un comune del Bellinzone­se con un padre, una madre e due fratelli. Per me erano perfetti sconosciut­i», ci dice. Un padre violento, poco cibo, niente luce, acqua o wc, sei figli (quasi tutti finiti in collegio). Nel giro di un anno Riccardino si ritrova di nuovo in istituto al Santa Maria di Pollegio. «Capì subito che era un postaccio. Le botte erano all’ordine del giorno, c’erano due preti e un laico molto violenti, uno era soprannomi­nato il boia. Ne ho prese davvero tante, vivevo nel terrore». (Uno dei preti fu condannato nel 1961 a 3 anni e mezzo per abusi sessuali su 11 ragazzi). Riccardino precisa di non aver subito abusi sessuali, ma tanti pugni e calci da parte di chi doveva istruirlo: «Il direttore dell’istituto sapeva, non poteva non aver mai visto nulla, eppure nessuno faceva niente per noi, eravamo soli in balia di questi violenti». Aveva un tutore, ma era un fantasma, nessuno si è interessat­o a lui. «Quello che rimprovero allo Stato è di non avere verificato che questi istituti fossero (o meno) idonei a educarci. Ci hanno collocato lì, senza interessar­si a noi. Eri solo in un ambiente molto violento». Un anno fa, Riccardino legge sulla ‘Regione’ le storie dei compagni di allora, come Giovanni Mora, e qualcosa gli scatta dentro. «Ho deciso di farmi avanti per solidariet­à, per confermare che abbiamo davvero subito tanta violenza gratuita», ci spiega. Aiutato dall’Archivio di Stato e dal Delegato per le Vittime, farà poi richiesta a Berna per l’indennizzo alle vittime di coercizion­e. In famiglia mancava il pane – riassume l’uomo –, in istituto ho trovato tante botte. Fece di tutto per lasciare l’istituto di Pollegio. A 10 anni iniziò a lavorare come garzone a Bellinzona, poi l’apprendist­ato di falegname a Pollegio. Il suo datore di lavoro passava i soldi all’istituto per vitto e alloggio, così che a Riccardino non restava nulla in tasca. Sarà poi suo fratello maggiore a venirgli in soccorso, facendogli avere un posto alle Ffs a Bellinzona. «Sono entrato a 17 anni e ci sono rimasto fino alla pensione». Con questo lavoro la sua vita cambiò. Conobbe la sua attuale moglie ed ebbe due figli. Oggi è nonno e vive a Chiasso. «Nessun bambino e nessun ragazzo devono vivere quello che abbiamo vissuto noi in quegli anni». Stato e Chiesa sapevano ma non hanno fatto nulla. «Noi siamo i testimoni viventi di questi errori».

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TI-PRESS I ricordi
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