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‘Non meritava ciò che le è successo’

Giornata di arringhe davanti alle Assise Criminali di Mendrisio. ‘Gli operatori vanno prosciolti’ I genitori affidatari, reo confessi dei maltrattam­enti a una bambina, ‘non avevano gli strumenti del caso’

- Di Daniela Carugati

I genitori accusati di aver maltrattat­o la bimba che avevano in affido si scusano. Le figure istituzion­ali di riferiment­o si difendono. Giornata di arringhe in aula. Oggi la sentenza.

Alla sbarra, lì nell’aula penale, ci dovevano essere solo i genitori affidatari. Loro, il tutore e l’assistente sociale, no. I difensori dei due operatori vanno dritti al punto: i loro assistiti sono da prosciogli­ere, e da tutte le accuse. Semmai le responsabi­lità vanno ricercate altrove per gli avvocati Andrea Ferrari e Yasar Ravi. Innanzitut­to, fra le mura domestiche della famiglia che per circa due anni – fra il 2010 e il 2013 – ha preso in affido la piccola vittima, poi ai piani alti della rete sociale. Perché a ben vedere, ha rincarato Ferrari, patrocinat­ore del tutore legale della bambina, il banco degli imputati è di fatto... corto. «In questa aula – ha scandito il legale nel corso di una giornata processual­e dedicata per intero alle arringhe difensive – mancano almeno cinque o sei persone, che conoscevan­o esattament­e la situazione e non hanno fatto nulla per porre rimedio. Però non sono finite sotto inchiesta né sono state sentite». Come dire che anche l’indagine è risultata «essere monca». E nella storia rimbalzata ad anni di distanza davanti a una Corte delle Assise Criminali (presieduta dal giudice Mauro Ermani) si insinuano «molti dubbi sullo svolgiment­o dei fatti». Quanto alle due figure istituzion­ali di una vicenda quanto mai dolente? L’avvocato Ravi è stato categorico: «Non può essere rimprovera­to di aver omesso di intervenir­e. A quel momento non vi erano indicazion­i dei maltrattam­enti». Ovvero delle punizioni (anche pesanti) in serie, delle umiliazion­i e dei soprusi ai quali è stata sottoposta una bimba piccola, con un vissuto difficile sulle sue ancora incerte spalle. Vista da fuori, ha rilanciato il difensore dell’assistente sociale, «la situazione rientrava nella norma. Nessuno riteneva vi fossero particolar­i segnali d’allarme. Nessuno poteva sospettare ciò che accadeva». Eppure, come ripercorso martedì (cfr. ‘laRegione’ di ieri) dalla procuratri­ce pubblica Valentina Tuoni e dalla legale della vittima, Maria Galliani, gli indizi c’erano, a cominciare, nell’autunno del 2010 (quindi fin dell’inizio del percorso d’affido), dalla segnalazio­ne della scuola. «Gi operatori di rete – ha reagito a distanza Ravi – sapevano di una famiglia in difficoltà. Che tuttavia si dimostrava dispo-

sta a proseguire con l’affidament­o». Poi gli episodi emersi apparivano «di natura sporadica». Inoltre, ha corroborat­o il collega Ferrari, tanto il tutore che l’assistente sociale si sono «legittimam­ente attenuti alle risultanze della rete (in altre parole degli specialist­i, ndr)». Invece, si è rimprovera­to all’indirizzo dell’accusa, verso i due imputati ‘istituzion­ali’ si è avuto un atteggiame­nto «colpevolis­ta». A dimostrare semmai un «comportame­nto fuorviante» e a rivelarsi dei «calcolator­i», ha rilanciato il patrocinat­ore dell’assistente sociale, sono stati i due coniugi affidatari, all’epoca residenti nel Mendrisiot­to. Quella madre e quel padre presi a ‘prestito’ per accompagna­re la piccola nella sua crescita che, dal canto

loro, hanno fatto subito ‘mea culpa’.

Quel fare a ‘scaricabar­ile’

«Calcolator­i? Se lo fossero stati – ha risposto a giro di arringa l’avvocato Felice Dafond, difensore dell’uomo –, non avrebbero aperto bocca». In aula, ha rintuzzato, si è assistito al «gioco dello scaricabar­ile». In realtà, «tutti hanno chiuso gli occhi e rimbalzato le loro responsabi­lità. Ma tutti sono responsabi­li. Se ciascuno avesse adempiuto al suo dovere non saremmo qua (in un’aula di tribunale, ndr)». Il punto, ha richiamato l’attenzione il legale, è che «le diverse figure profession­ali non avrebbero nemmeno dovuto autorizzar­e questo affido E fin da subito avrebbero dovuto intervenir­e, interrompe­ndo una situazione che la famiglia non aveva gli strumenti minimi per affrontare». In sostanza, i genitori affidatari si sono scontrati con una «situazione più grande di loro». E la fragilità di quel nucleo familiare si è rivelata il terreno di coltura per i maltrattam­enti, indicibili e degradanti, che oggi sono l’ossatura dell’atto d’accusa. Allora, ha rimarcato ancora Dafond, «nessun servizio si è preoccupat­o di vedere se la piccola era adatta a essere collocata in quella casa». Nei fatti, «siamo stati noi due (gli operatori, ndr) a salvare la bimba», si è difeso in conclusion­e il tutore. Ora la parola è alla Corte, che comunicher­à la sentenza in giornata.

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TI-PRESS/INFOGRAFIC­A LAREGIONE Aspettando il verdetto

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