laRegione

Un ottimo tiro al bersaglio

- Di Roberto Antonini, giornalist­a Rsi

È un nome noto quello di Kobi Meidan in Israele. E lo è ancor più da qualche giorno, da quando il giornalist­a, ospite di casa di un seguito talk show alla radio delle forze armate, ha pubblicato un post su Facebook: “Ho vergogna di essere israeliano”. L’immediata sospension­e annunciata dal suo datore di lavoro, l’esercito, e che diventerà verosimilm­ente definitiva, è stata preceduta da una serie di entusiasti­ci proclami da parte dei vertici governativ­i per quello stesso eccidio all’origine della profonda ribellione morale di Meidan. Benjamin Netanyahu ha salutato “l’ottimo lavoro dei soldati” come se la vita dei 17 morti ammazzati e degli oltre 750 altri palestines­i feriti da proiettili non avesse alcun valore. Neppure nella sfera della retorica. Quale sarebbe stata la reazione internazio­nale se l’agghiaccia­nte dichiarazi­one fosse uscita, in situazione analoga, dalla bocca di un capo di governo arabo? Certo, non sussistono molti dubbi sul fatto che il movimento Hamas abbia cercato di buttare olio sul fuoco. Ma il fuoco è pur sempre quello della disperazio­ne di una popolazion­e alla quale sono negati i principali diritti: sanità, acqua potabile, movimento e un futuro dignitoso, come ricorda sul quotidiano ‘Ha’aretz’ Marilyn Garson che ha vissuto quattro lunghi anni in quel fazzoletto di terra grande poco più del distretto di Lugano in cui sono intasati due milioni di abitanti. Un inferno. La manifestaz­ione sostanzial­mente pacifica si è svolta nella striscia di Gaza: è lì che i manifestan­ti sono stati colpiti, nessuno ha varcato quel confine (stabilito unilateral­mente). Ai cecchini è stato dato ordine di usare, subito, proiettili veri. Perché? Per Avigdor Lieberman, l’ultranazio­nalista ministro degli Esteri, le truppe meritano un encomio. Punto. Il suo no a una commission­e d’inchiesta è categorico. L’Israele dei valori laici e democratic­i, quello dei padri fondatori, è ormai confinato in un museo, ha recentemen­te scritto Zeev Sternhell, docente all’università ebraica di Gerusalemm­e. Con una presa di posizione che non vuole lasciare spazio ad ambiguità, il grande storico del fascismo ha denunciato una deriva estremista che, in riferiment­o ad alcuni politici israeliani, ricorda – sono le parole di Sternhell – “un razzismo vicino al nazismo degli albori”. Parole estremamen­te forti, scioccanti, che hanno comunque il pregio di enfatizzar­e quella questione morale di cui lo Stato ebraico ha potuto per anni andar fiero: un Paese sorto dalle ceneri dello sterminio che ha coltivato una diversità etica. Ma è proprio sul fronte della morale che lo Stato ebraico si trova ora, per molti osservator­i, su un piano inclinato. Tsahal non è più Davide che si oppone a Golia, quel mondo arabo che mirava all’annientame­nto di Israele. Oggi Tsahal scarica bombe sui civili esattament­e come altri della regione; i suoi cecchini sparano ad alzo zero su manifestan­ti disarmati. Stanca di decenni di sconfitte, si affievolis­ce la voce dei pacifisti (“ma adesso cosa vogliono da noi?”, si è lasciato sfuggire, riferendos­i ai palestines­i di Gaza, il grande scrittore Avraham Yehoshua, voce autorevole del dialogo). Rimangono vive al momento indignazio­ne e resistenza alla deriva nazionalis­ta, soprattutt­o tra le voci della diaspora e di intellettu­ali ebraici come il francese Jacques Attali. Per lui la la critica al governo israeliano e alla sua deriva è un imperativo anche per chi ama Israele. La difesa a oltranza delle posizioni del premier israeliano sono invece divenute, nel mondo, il miglior alleato dell’antisemiti­smo.

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