Big five di Wall Street sotto assedio
È solo una crisi d’immagine temporanea quella che ha travolto i titoli high-tech nelle ultime due settimane di marzo? Oppure è l’inizio dello scoppio di una Bolla e la fine del Toro che correva a Wall Street da oltre nove anni?
La Borsa americana riapre dopo Pasqua sotto il peso di questo inquietante interrogativo, dopo aver chiuso il peggior trimestre dal 2015. Nei primi tre mesi del 2018 i due indici più seguiti di Wall Street, il Dow Jones e l’S&P500, hanno infatti perso rispettivamente il 2,5 e l’1,2%; e dai loro massimi del 26 gennaio sono scesi del 9 e 8%. Il Nasdaq, il mercato elettronico specializzato nei titoli ad alta crescita, ha finito invece il trimestre in positivo, +2,3%, perché aveva continuato a salire fino al massimo di 7’637 punti del 13 marzo, ma da allora in soli 12 giorni è crollato del 7,5 per cento.
La panoramica del fuggi fuggi:
Facebook ma non solo lui
Nonostante il rimbalzo dello scorso giovedì – l’ultimo giorno di scambi, perché il Venerdì santo la Borsa americana resta chiusa – i dieci titoli hightech più popolari, quelli su cui si basa l’indice Fang+, hanno perso l’11% dal 16 marzo, il giorno dello scoppio dello scandalo Facebook per il suo modo di trattare i dati degli utenti. Oltre alla società di Mark Zuckerberg, nel Fang+ ci sono Apple, Amazon, Netflix, Google, Nvidia, Tesla, Twitter e anche le cinesi Alibaba e Baidu, entrambe quotate al Nasdaq. A dare il la al fuggi fuggi dall’high-tech è stata una raffica di cattive notizie. Non solo sul social network di Zuckerberg, che prossimamente per la prima volta dovrà sottoporsi all’interrogatorio dei parlamentari statunitensi e probabilmente sarà colpito da qualche forma di regolamentazione per proteggere la privacy del pubblico (-14% le quotazioni di Facebook dal 16 marzo).
Tesla ancora peggio
Anche peggio è andata alla casa automobilistica super cool di Elon Musk, Tesla, crollata del 17% in due settimane dopo le news di un’inchiesta federale su un incidente mortale causato da una sua vettura semi-automatica e dopo il ribasso del rating dei suoi bond da parte di Moody’s; a cui si è aggiunto, dopo la chiusura della Borsa giovedì scorso, l’annuncio del ritiro dal mercato di 123mila Tesla modello S per difetti di manifattura.
Se l’euforia sull’high-tech è finita, c’è da aspettarsi una crisi di tutta Wall Street, come è successo in passato quando un tipo di investimento ‘alla moda’ è tramontato
E la Amazon di Jeff Bezos ha perso l’8%, sempre negli stessi giorni, grazie alle sparate del presidente Usa Donald Trump, che ha minacciato misure per limitare il suo strapotere nell’e-commerce. Lo stesso calo l’ha subito Alphabet, perché le sue controllate Google e YouTube corrono gli stessi rischi di regolamentazione pendenti su Facebook. Persino Apple è scivolata del 6% in mezzo ai dubbi sollevati dagli analisti di Goldman Sachs che sia «finita l’era dell’iPhone» e le sue vendite siano destinate a diminuire. Mentre Microsoft ha limitato le perdite al 3,5%, ma ora sul suo futuro c’è l’incognita dell’effetto della svolta appena annunciata: l’abbandono della centralità del sistema operativo Windows su cui aveva costruito le sue fortune, per puntare tutto sul business del cloud computing con Azure.
L’ansia degli investitori
Ma a parte le cattive notizie, cresce anche l’ansia degli investitori sulle valutazioni raggiunte da certi Big dell’hightech. Proprio le quotazioni di Amazon, per esempio, sono arrivate al livello astronomico di 175 volte gli utili stimati per il 2018. E così la fiducia che fino a ieri sembrava infinita sulle capacità di Bezos, Zuckerberg e colleghi di continuare a crescere e remunerare gli azionisti con le performance di Borsa, ha cominciato
a vacillare seriamente. Il problema è che il settore tecnologico pesa enormemente sulla Borsa americana: è arrivato a rappresentare il 27% del valore di tutti i 500 titoli dell’indice S&P. Le cinque aziende più grandi – Apple, Amazon, Netflix, Google e Facebook – da sole valgono il 15% dell’S&P500 e fino a prima del crollo del 16 marzo avevano contato per quasi la metà (45%) dei guadagni 2018 dell’indice. Se l’euforia sull’high-tech è finita, c’è da aspettarsi una crisi di tutta Wall Street, come è successo in passato quando un tipo di investimento «alla moda» è tramontato. Negli anni Sessanta del secolo scorso erano state le blue-chip Nifty Fifty – considerate solide e da tenere “per sempre” in portafoglio – a crescere fino a costare in media 49 volte gli utili con punte di 86 per McDonald’s e 82 per Walt Disney: poi sono crollate nel ’73 dando il via a uno dei più lunghi periodi Orso, durato fino all’82. Negli anni Novanta erano state le dot.com a dar vita all’Internet mania e a spingere il rapporto prezzo/utili dell’intero indice S&P500 a quota 30 fino allo scoppio della Bolla nel 2000. E poi è stata la volta del boom dell’immobiliare e della finanza sfociato nella grande crisi del 2008. Come se non bastasse l’incertezza sui Big tecnologici, ad agitare gli investitori si aggiungono i rischi di possibili guerre commerciali se davvero Trump attua le sue minacce di tariffe sulle importazioni. «È possibile che si tratti solo del comportamento di un uomo del mondo dello spettacolo con motivi politici interni agli Stati Uniti», ha osservato il Nobel per l’Economia Robert Shiller, facendo però notare che se anche nessuna seria misura verrà adottata, il clima di caos fomentato dalla retorica della Casa Bianca ha un effetto psicologico negativo sull’economia. La guerra sulle tariffe durante La Grande Depressione, ha ricordato Shiller, fu devastante soprattutto perché distrusse la fiducia degli imprenditori e la loro volontà di programmare il futuro. L’unica cosa certa, per ora, è che la volatilità della Borsa delle ultime settimane è destinata a continuare in questa primavera.