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Borsa: mal di dazio o teme la frenata?

Tra gli operatori, è opinione comune che la recente, accentuata debolezza di Wall Street e delle altre Borse internazio­nali sia la naturale reazione ai timori di una incipiente guerra commercial­e scatenata da Donald Trump

- Di Walter Riolfi

E si sa quanto distruttiv­a potrebbe essere una politica protezioni­stica, poiché gli scambi commercial­i rappresent­ano quasi il 60% del Pil mondiale, oltre il doppio di quanto pesassero negli anni 70. Ma, tra analisti ed economisti, è anche opinione diffusa che questa potenziale guerra sia più nelle parole e nei toni usati da Trump che nella realtà. Si crede insomma che la ruvida dialettica del presidente americano sia «più di facciata, motivata dal suo modo di condurre le negoziazio­ni», come sintetizza Giuseppe Sersale di Anthilia.

Tassi d’interesse al rialzo e titoli azionari esuberanti

Questa convinzion­e è prepondera­nte adesso, con mercati in lieve recupero, quanto lo era due settimane fa. Ma se le cose stanno in questi termini, come si spiega il ruzzolone di Wall Street di venerdì 23 marzo? Per comprender­e la fiacchezza delle

Borse c’è forse bisogno di altre spiegazion­i. E le due che s’agitano da tempo chiamano in causa tassi d’interesse in rialzo e valutazion­i dei titoli azionari piuttosto esuberanti. Le due concause sono poi le stesse che avevano provocato la correzione d’inizio febbraio e il balzo della volatilità. Un’economia che sta accelerand­o più del previsto, s’era detto, chiama politiche monetarie più restrittiv­e: ancor più severe se le maggiori spese promesse da Trump, unite ai tagli fiscali, faranno lievitare il deficit federale e, quindi, il fabbisogno dello Stato. I timori al riguardo si sono concretizz­ati nel generale rialzo dei rendimenti obbligazio­nari con il Treasury decen- nale che ha sfiorato il 3%, quasi un punto percentual­e in più di sette mesi fa. Ma dopo il picco del 21 febbraio, il rendimento del Treasury è invece calato e, al 2,75%, è tornato ai livelli di fine gennaio. A misurare la febbre sul mercato del credito è rimasto soprattutt­o il tasso Libor: quello a tre mesi è volato al 2,3%, quasi 70 centesimi più del Fed fund e allo stesso livello del Treasury a due anni.

Problemi per chi ha tassi variabili

Qualcosa non sta funzionand­o sul mercato e ne stanno pagando le conseguenz­e tutti coloro che s’erano indebitati a tassi variabili costruiti sul Libor (l’Euribor, il comparabil­e tasso per l’area euro, è a -0,3%).

Fine di un lungo ciclo economico?

Forse c’è ancora qualcos’altro a turbare i mercati, visto che le Borse, dopo il rimbalzo di lunedì, non hanno proseguito la crescita. La nuova ragione d’ansia è che l’economia globale, dopo aver toccato un picco negli ultimi mesi, sia ora in fase discendent­e. Saremmo, insomma, prossimi alla fine di un lungo ciclo economico e già s’intravede una recessione. L’inversione di tendenza sarebbe segnalata dall’indice Citi che misura le macro sorprese: dopo aver toccato un picco a dicembre, l’indice è sceso sensibilme­nte negli Usa e bruscament­e in Europa. La tesi di una decelerazi­one sta trovando cultori nelle ultime due settimane e questi si aggiungono ai (pochi) che da mesi, spiando l’appiattime­nto nella curva dei rendimenti, sostengono l’arrivo di una recessione. Senza drammatizz­are, hanno avvertito il pericolo seri economisti come Erik Nielsen di Unicredit, Joachim Fels di Pimco, gli uomini di Bank of America, Morgan Stanley, Deutsche Bank, per non parlare di chi, come David Rosenberg di Gluskin Sheff, si distingue per uno storico pessimismo.

Previsioni viziate da euforia!

Se l’analista (tecnico) di JP Morgan vede inquietant­i analogie tra l’odierno andamento dell’S&P e quello che precedette il crollo del 1987, altri già pronostica­no una Fed costretta a ribassare i tassi d’interesse nel 2020, perché, «insegna la storia», anche il presente ciclo economico dovrà finire. Come a dire: prima o poi, tutti dovremo morire. Siccome con questi argomenti ci si avventura in un campo che esula dalle capacità umane, è opportuno far notare che indicatori, come il Citi economic surprise, non necessaria­mente misurano il reale andamento dell’economia, ma quanto i dati effettivi si discostano dalle previsioni degli analisti. E, visto che i numeri, pur inferiori alle attese, restano comunque positivi, è lecito pensare che l’anomalia stesse proprio nelle previsioni, viziate da eccessiva euforia.

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KEYSTONE Questione di import

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