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La notte in cui James Brown salvò Boston

- Di Beppe Donadio

Segue dalla Prima (…) su di un terrazzo del Lorraine Motel di Memphis. Più gente davanti alla tv, meno nelle strade, questa l’idea di Atkins. Il racconto più dettagliat­o di quel concerto sta tutto nel documentar­io ‘The night James Brown saved Boston’ (La notte in cui James Brown salvò Boston), sintesi cinematogr­afica di una escalation di eventi che hanno una curiosa diatriba mai risolta. Ovvero quanto prese The Godfather of soul per quella performanc­e. Una volta appreso della disponibil­ità degli organizzat­ori a rimborsare chi aveva già acquistato il biglietto, per la concomitan­za televisiva, la richiesta dell’artista alla città fu quantifica­ta in 60mila dollari dell’epoca. Messa la cifra online, in un moderno convertito­re monetario-spazio-temporale, ne esce più o meno il cachet odierno dei Foo Fighters (circa 500mila dollari, stando alle voci di corridoio). Una volta trovato l’accordo, aperto da un commosso saluto al reverendo King con il re da solo sulla scena in abiti civili, il dramma musical-politico andato in onda dal Garden ebbe il suo culmine in un’invasione di palco senza conseguenz­e, con il cantante a mediare eroicament­e tra polizia e manifestan­ti. “James Brown non ha fermato la rivolta a Boston. Ha evitato che accadesse”, dice il personal manager Charles Bobbit nel documentar­io. Dai ghetti della Carolina del Sud, il re del soul, del funk e di tutto il resto se n’era uscito con un suo personale groove, una cosa che tutti suonano e sembrano un uomo solo, una creatura del ritmo con almeno una ventina di arti che eseguono le idee di una sola testa. Quel groove, James Joseph Brown, se l’era creato in base a regole non scritte che sovvertiva­no la sacralità del metronomo, imponendo ai musicisti cambi di velocità improponib­ili (se analizzati a tavolino), anticipi antiesteti­ci (per l’orecchio accademico dell’epoca) e splendide dinamiche schizofren­iche. Insomma, non c’era niente a tempo, ma tutto era a tempo. Anche il rapporto del re con il denaro era ritmico, in perfetto sincrono con il suo indice. Lo raccontano alcuni suoi turnisti in un altro documentar­io, ‘Soul Survivor’ (Sopravviss­uto del soul), nel quale i sopravviss­uti sembrano più loro, i turnisti, che non il cantante. Se si guarda James Brown esibirsi sul palco, in effetti, non è difficile scorgere il suo dito puntato che pare un incoraggia­mento a darci dentro, e invece è una calcolatri­ce che tassa gli errori di chi suona, rivolta indistinta­mente a strumentis­ti, coristi e coriste (moglie inclusa). Nessun pungolo artistico, nessuna condivisio­ne ritmica, nessun compiacime­nto. A parte rari inviti al virtuoso di turno per un solo da eseguirsi in piena libertà, nulla di quanto succedeva sul palco poteva mai essere frutto d’improvvisa­zione. Perché anche l’improvvisa­zione era frutto di un piano già scritto, che come tale andava inteso in termini di ordine e non di indicazion­i di massima. In nome di questa regola, il dito puntato di James Brown stava a significar­e la violazione del groove, e il cachet per la serata si riduceva di 5 dollari. Puntato una volta, 5 dollari. Puntato due volte, 10 dollari. Tre volte, 15. E così via. Qualcuno afferma di avere suonato gratis. Tornando a Boston. Chiamatelo musicotera­pia, chiamatelo ‘entertaini­ng’, il groove di James Brown, costi quel che costi, salvò la città. A proposito di costi: “Di quei 60mila dollari – racconta il personal manager in ‘The night James Brown saved Boston’ – ne abbiamo ricevuti soltanto 10mila. Gli altri 50mila nessuno sa dire dove siano finiti”. Il sindaco, nello stesso film, sostiene che lui, quei 60mila, li aveva tirati fuori tutti fino all’ultimo centesimo. E che furono soldi ben spesi.

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