Quella fissa di bloccare i dischi
Pierre-André Reuille e una finale vista con gli occhi di padre, (ex) portiere e tifoso. ‘Non gli ho mica detto io di buttarsi davanti ai tiri’.
Non hanno solo lo stesso sangue, essendo uno figlio dell’altro. In comune hanno pure la stessa passione di buttarsi addosso ai dischi. Anche se, a differenza di Sébastien Reuille, che di mestiere fa l’attaccante, suo padre Pierre-André era portiere a tutti gli effetti. «Non gliel’ho mica detto io, di gettarsi davanti ai tiri. È lui che è un po’ matto» dice, ridendo, il papà dell’ala numero 32 del Lugano. «Semmai, ciò che gli ho sempre ripetuto è questo concetto: ‘Se darai sempre il massimo in qualsiasi cosa che farai, non avrai mai nulla da rimproverarti’. E finché ciò che fa lui rende servizio alla squadra, be’, tanto meglio. Anche se dovreste vedergli le gambe: roba da non credere». È quel coraggio, specialmente da parte delle cosiddette seconde linee, l’arma in più di questo Lugano? «Per come la vedo io, il fatto è che ad essere cresciuta è tutta la squadra, nel suo insieme. Ed è fenomenale il lavoro che sta facendo lo staff tecnico, dando responsabilità a dei giocatori a cui gli allenatori che c’erano in precedenza non accordavano la stessa fiducia. Parlo di elementi che non avranno magari nomi altisonanti, ma che nei playoff dimostrano tutta la loro qualità. Come Sannitz, ad esempio. E il punto è che ogni sera il Lugano va in pista con un’energia, una fisicità, una passione tali... Non soltanto tutti sanno con precisione ciò che devono fare, ma lo fanno pure al 120% delle loro possibilità. Dai più giovani in su. Alla lunga, un simile atteggiamento è pagante. Non ti serve la squadra migliore, con i migliori giocatori al mondo: se tutti fanno ciò che devono, e se ognuno accetta il proprio ruolo, puoi davvero riuscire a spostare le montagne». Poi, a maggior ragione, quando arrivi all’ultimissimo gradino non hai davvero nulla da perdere: «In una finale, non puoi avere nessun altro obiettivo se non quello di vincere. Perché non ti capita tutti gli anni di poter arrivare fin lì». Il Lugano però comincia a farci l’abitudine... «D’accordo, è vero, è già la seconda volta in tre anni. In più, stavolta ha la possibilità di cominciare in casa. Le chance di vittoria? Direi che sono cinquanta e cinquanta, perché si
tratta pur sempre di una serie di finale in cui tutto può accadere. Io, però, ci credo». Parli da padre, da tifoso o da ex giocatore? Forse molti non ricordano, ma 35 anni fa fosti tu a portare quella stessa maglia (più o meno) in cui ora suda tuo figlio. «Già, ed è come se fosse
ieri, ricordi meravigliosi di una stagione che fu la prima del Lugano di ritorno nell’élite nazionale. Ah, se non avessi ascoltato Réal Vincent (difensore canadese allora in forza ai bianconeri, ndr) che mi propose di andare a Losanna con lui... Sapevo che sarebbe arrivato Thierry Andrey
(proprio da Losanna, ndr), e avremmo potuto formare una gran bella coppia. In una squadra che aveva forti personalità al suo interno, e in cui c’era un signor giocatore come Aldo Zenhäusern...». In questo Lugano, invece? «Ci sono elementi che sul ghiaccio
sono a dir poco straordinari. Penso a Lajunen, un elemento eccezionale. Oppure a Lapierre, che Shedden utilizzava per irritare gli avversari, mentre invece è un gran giocatore. Perché segna e fa segnare, è impeccabile alle balaustre e lo trovi dappertutto, in attacco come in difesa».