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Nel nome del popolo sovrano

- Di Lorenzo Erroi

Cos’è il sovranismo? La risposta gentile ed encicloped­ica è che si tratta di una dottrina politica mirata a conservare o ricostitui­re la sovranità nazionale, minacciata dagli accordi internazio­nali e dai poteri forti della globalizza­zione. La risposta cattiva è che si tratta di populismo con la cravatta. Del populismo condivide, anzitutto, la mistificaz­ione storica. Millanta infatti una presunta età dell’oro degli stati nazionali – di solito identifica­ta con gli anni del boom economico – nella quale si era ‘padroni a casa nostra’ e quindi, va da sé, felici e contenti.

Poi sono arrivati un’élite politica che ha tradito il popolo, i baroni della finanza, la globalizza­zione, l’Europa, Soros… ed è andato tutto a ramengo. La storiella tace il fatto che quel benessere dipendeva semmai dall’esatto contrario: furono le prove tecniche di globalizza­zione, dal Piano Marshall alla Cee passando per Bretton Woods, che creando massicce interdipen­denze fra gli stati hanno permesso pace e prosperità. Il sovranismo – che una volta si chiamava, più sinceramen­te, nazionalis­mo – è piuttosto una delle forze che incendiò le polveri di due guerre mondiali.

Pesi e misure

Da falsa premessa, errata conclusion­e: se si stava così bene prima, torniamo indietro. Ricostitui­amo, per dirla col sovranista di casa nostra Marcello Foa, “una nuova forma di convivenza internazio­nale, in cui l’interesse e i poteri nazionali tornino ad avere il loro peso naturale e in cui i trattati internazio­nali non siano più calati dall’alto ma siano frutto di negoziazio­ni tra Paesi sovrani e con pari diritti”. Per suonare, suona benissimo. Peccato che non esista un “peso naturale” degli stati, o meglio: se si intende il peso relativo di ciascuna nazione sullo scacchiere internazio­nale, sono proprio i trattati internazio­nali a permettere ai più piccoli di non venir schiacciat­i dalle grandi potenze. Ovviamente ciascun sistema globale riflette gli interessi prepondera­nti dei suoi attori maggiori: “I più forti esercitano il loro potere e i più deboli vi si adattano” notavano gli Ateniesi di Tucidide, prima di passare a fil di spada i poveri Melii. Ma l’odiata globalizza­zione ha almeno il pregio di creare sistemi pacifici per la risoluzion­e delle dispute (come il Tribunale dell’Aja o il Wto), invece di consegnare subito il verdetto alle armi. Per farla breve: la pretesa di negoziare “da pari a pari” sul piano internazio­nale è ridicola, soprattutt­o per un Paese piccolo come la Svizzera (che non a caso, in passato, ha preferito farsi capitale delle organizzaz­ioni internazio­nali). Eppure è un’autoillusi­one molto frequente, come dimostrano per esempio l’enorme ritardo nell’accettare la fine del segreto bancario, l’illusione di ‘Prima i nostri’ e ‘Contro l’immigrazio­ne di massa’, il velleitari­o ‘reset’ di Cassis all’Ue, l’iniziativa ‘Contro i giudici stranieri/per l’autodeterm­inazione’. E come segnalano, altrove, la Brexit e il successo elettorale di personaggi come Donald Trump e Viktor Orbán (idoli assoluti dei più sbiellati fra i sovranisti europei). Con l’aggravante che se a saltare sul carro del sovranismo è l’America, storica garante del sistema internazio­nale, le cose si mettono peggio del solito. Scomodo nuovamente Tucidide: quando si costruisce un impero, “per quanto paia ingiusto l’averlo preso, è certamente pericoloso lasciarlo andare”.

Meglio soli?

Quanto a cosa succeda con l’affermarsi di politiche sovraniste, gli esempi cominciano ad abbondare. I dazi trumpiani hanno innescato un’inutile guerra commercial­e con la Cina, che aumenterà enormement­e i costi di produzione per le imprese di entrambi i Paesi e peserà sulle tasche dei consumator­i locali. Oxford Economics stima che la Brexit costerà alla Gran Bretagna 170 miliardi di franchi all’anno, fra costi diretti e indiretti, ovvero il 6% del Pil. L’economia ungherese non paga il suo sovranismo, ma solo perché per ora l’Unione Europea continua a versarle quei ricchissim­i sussidi che vanno ad ingrassare gli oligarchi di Orbán. Sotto casa nostra, il rischio sovranista è incarnato da un governo che metta insieme Lega e Movimento 5 Stelle. Leonardo Tondelli nota che, se i due movimenti riuscisser­o a superare i dissidi senza implodere, si arriverebb­e all’allineamen­to perfetto fra “un populismo endogeno, che si è raccolto intorno al M5S e cerca i nemici del popolo esclusivam­ente al suo interno, identifica­ndoli nella Ca$ta dei politici corrotti e collusi” e “un populismo esogeno che ha occhi solo per le minacce esterne, vere o presunte (l’Euro, la tecnocrazi­a di Bruxelles, Soros, Bilderberg)”. Ed è lo stesso Tondelli a notare che per questo populismo “la parola più giusta potrebbe essere sovranismo”.

Reazionari

Poi c’è l’aspetto culturale del sovranismo, ancora più osceno perché fomenta una chiusura sociale senza mezzi termini. Scriveva il Ceo di Muzzano un annetto fa: “Perché le differenze culturali, identitari­e e politiche non devono più valere? Perché tutti i popoli devono assomiglia­rsi? Perché la famiglia tradiziona­le non va più bene e deve essere svuotata di significat­o?” Non chiedetemi cosa c’entri qui la famiglia, perché non ne ho idea. Ma l’andazzo è quello comune a molti suoi compagni di viaggio, dal Viktator di Budapest ai lepenisti, passando per Salvini e Quadri: ommioddio dove andremo a finire, fra un po’ da Bruxelles e Wall Street ci diranno pure con chi andare a letto. Ve detto, e non è un corollario da poco, che alcune istituzion­i transnazio­nali ce l’hanno spesso messa tutta per farsi odiare. L’Ue sconta il fatto di avere avviato una prima devoluzion­e di sovranità nazionale – quella che con l’euro ha posto fine all’autonomia monetaria nazionale – senza però costruirvi attorno un sistema rappresent­ativo della volontà popolare. La globalizza­zione finanziari­a, privata di controlli, ha creato la bolla speculativ­a sfociata nella crisi. Nonostante gli sforzi di Mario Draghi, la linea eurotedesc­a dell’austerity ha aggravato quella stessa crisi.

Peggio la toppa del buco

Comprensib­ile, dunque, che in giro ci sia parecchio malcontent­o. Ma tornare indietro a Westfalia, o ai “bei” tempi in cui la nazione era la misura di ogni cosa, riflette esattament­e la fallimenta­re risposta che negli Anni Trenta si cercò di dare alla Grande Depression­e. Ed è difficile capire a che livello di polverizza­zione possa fermarsi questa regression­e: perché in fondo è la legittimit­à stessa della democrazia rappresent­ativa – in cui ai “pochi” è delegata la volontà dei “molti” – che viene messa in discussion­e. Il rischio non è quindi solo quello di un mondo più diviso, ma anche meno democratic­o. Che è un bel paradosso, date le intenzioni dei sovranisti: ma di buone intenzioni, si sa, sono lastricate le vie dell’inferno.

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