laRegione

Non dite più ‘ricovero’

Paola Franscini

- di Tiziano Ferracini

Da 30 anni dirige la casa anziani Paganini Rè di Bellinzona: il concetto di ricovero è evoluto e grazie alla collaboraz­ione con la Supsi è stato avviato un nuovo modello di presa a carico, denominato ‘Progetti di vita’, che ha dato lo spunto per riorganizz­are i processi di lavoro e ridefinire i ruoli e le figure profession­ali Quest’anno festeggia trent’anni alla testa della casa anziani Paganini Rè e della sua Fondazione. Quali sono i motivi che l’hanno spinta a scegliere questa attività?

Le mansioni di amministra­re e condurre un’azienda ‘no profit’, dotata di un elevato livello sociale-sanitario e umano, mi sono state proposte dall’allora Consiglio di Fondazione formato da monsignor Giuseppe Torti, Giovanni Pedrazzini ed Emilio Mordasini. Fino ad allora, in maniera del tutto gratuita, loro avevano condotto per un ventennio le sorti del ricovero. Per me, che allora non avevo neppure trent’anni, è stata una sfida allettante e un poco idealista. Lavorare al “ricovero” per molti significav­a infatti non aver ambizioni, dedicarsi a un’attività di nessuna prospettiv­a. Nel convincime­nto comune l’idea di far volontaria­to al ricovero era ammirabile, lavorarci era mettersi in una posizione infelice. Per contro, la mia intenzione era, ed è tutt’oggi, rivalutare con entusiasmo questo settore della società “improdutti­va”, nel quale intravvede­vo molte prospettiv­e managerial­i e umanitarie. Inoltre ho trovato affascinan­te percorrere la strada indicata da Flora Paganini Rè nel 1919. Lei aveva compreso un bisogno sociale irrisolto e nel costituire la Fondazione proponeva una soluzione, prevedendo un “Ricovero per anziani o invalidi” nel senso di riparo, difesa, accoglienz­a. Condivider­e per 30 anni un tratto di vita di almeno 600 residenti è un privilegio e nel contempo una grande responsabi­lità. Affidare un proprio caro nel momento di fragilità a un ente è un atto di fiducia. La direzione e tutti i collaborat­ori hanno l’obbligo di corrispond­ere al difficile atto di fiducia con azioni competenti e sentimenti di grande comprensio­ne e rispetto.

Quali sono state le tappe di sviluppo e di rinnovo del ricovero in questi ultimi trent’anni?

Dopo un primo periodo di attività nell’ex convento dei cappuccini adiacente alla chiesa della Madonna delle Grazie, già nel 1973 si è dovuto pensare alla costruzion­e di un nuovo edificio, poiché non vi erano più posti per soddisfare le richieste di assistenza e inoltre i bisogni di cura erano in profondo mutamento. Quando giunsi al Paganini nel 1988 era in fase di conclusion­e la ristruttur­azione del “convento”, l’edificio che per primo accolse nel 1921 gli ospiti. Di questo edificio si parla già prima del 1500: immaginate­vi quale fascino ed emozione suscita vivere in un luogo così particolar­e. Altri innumerevo­li interventi architetto­nici si sono susseguiti dagli anni 90 sino al rovinoso incendio del 31 dicembre 1996. Oltre che bruciare la chiesa il fuoco ha distrutto una parte del tetto, facendo cedere un ascensore, 10 camere della casa anziani e reso inagibile, a causa del fumo, oltre metà dell’istituto. Quella notte tutti gli ospiti sono stati sfollati verso l’ospedale, la protezione civile e altre case anziani. Tutto si è svolto nel migliore dei modi poiché nessuno dei 97 ospiti o dei collaborat­ori e visitatori è rimasto ferito o intossicat­o.

L’incendio del 31 dicembre 1996 e il bisogno di avere tutto sotto controllo nel momento dell’urgenza

Cosa ricorda esattament­e di quella notte?

Il mio bisogno d’avere tutto sotto controllo. Per gli ospiti volevo sapere chi andava dove, anche per poter informare le famiglie. Dei collaborat­ori era importante registrare le presenze, riorganizz­are i turni e i luoghi di lavoro, visto che per un certo periodo si recavano in ospedale a eseguire le cure di base ai nostri ospiti. Per quelli trasferiti alla Protezione civile dell’Espocentro si trattava di servire una cena e permettere a tutti di prepararsi per la notte. Camice da notte, protezioni igieniche, medicament­i e cibo erano tutti da recuperare in casa anziani con l’ausilio dei pompieri. In quei frangenti e nei giorni seguenti ho scoperto nei collaborat­ori doti personali che mi erano sconosciut­e e che ho molto apprezzato. Una squadra con una tale motivazion­e e disponibil­ità da far concorrenz­a alle migliori fiction televisive del genere. Ricordo, anche, l’amorevolez­za e la spiccata profession­alità del dottor Antonio Binzoni, direttore sanitario. Poiché i pompieri non avevano permesso l’accesso alle infermerie per motivi di sicurezza, si doveva lavorare senza cartella sanitaria e in certi casi senza i medicament­i preparati per sera e notte. Gli ospiti erano spaesati e preoccupat­i per il loro futuro. E lui li rincuorava indicando con precisione alle infermiere del San Giovanni la diagnosi e le terapie di ognuno, mentre la Madre superiora indicava i bisogni di cura e di vita.

I curiosi hanno forse creato problemi?

Erano tali da indurmi a chiamare un servizio di sorveglian­za privato allo scopo di proteggere loro dai pericoli e i beni materiali dagli ‘sciacalli’. Il primo gennaio, giorno del rientro in casa anziani degli ospiti collocati in Protezione civile, mentre facevo un sopralluog­o nel convento inagibile e deserto, trovo una signora a me sconosciut­a, con tanto di pelliccia davanti all’ascensore in attesa di poter entrare. Il lift era caduto la sera: non vi dico cosa le dissi poiché me ne vergogno ancora oggi.

E le fasi successive?

Il 20 giugno 1997, con l’ottima collaboraz­ione dell’assicurazi­one, dell’architetto e degli artigiani tutto l’edificio era nuovamente agibile. Poi nel 2000 e nel 2012 si è messo mano nuovamente all’edificio per migliorare la qualità di vita ai residenti. Dalla priorità di dar posto ai richiedent­i si passava a quella di dare qualità di vita alle persone e ai vari servizi.

Quali sono i cambiament­i più importanti che ha vissuto durante questo lungo periodo?

Longevità non equivale ancora purtroppo a salute e autonomia. Le malattie degenerati­ve della mente e del corpo si sono apertament­e manifestat­e. Alla fine del primo millennio le esigenze di cura e assistenza erano in piena evoluzione. Il prolungame­nto della speranza di vita a seguito di stili di vita diversi e dell’evoluzione della medicina aumentava sempre più i numeri delle persone anziane, specialmen­te quelle sole o molto indebolite e bisognose di cura o assistenza. I figli 70enni difficilme­nte potevano farsi carico dei bisogni dei 90enni. Sul territorio iniziavano a proporsi medici geriatri e si intensific­avano le cure a domicilio. Le attività che si svolgevano con le persone anziane o attorno ad esse erano divenute di grande interesse pubblico e politico. La società non pensava più a questo settore in termini di “carità” ma di “business”. Il Paganini guardava avanti e s’interrogav­a sulle migliori offerte di qualità.

Più che ospiti, oggi sono residenti: cercano prestazion­i e non necessaria­mente solo protezione

Chi sono gli attuali residenti?

La tipologia è quella di persone che cercano prestazion­i e non necessaria­mente e unicamente protezione. Messi in condizioni ambientali e psicologic­he adeguate, le persone possono ritrovare una propria autonomia nei movimenti e nelle relazioni; questo indipenden­temente dal fatto che le persone siano affette da demenze o altre inabilità. La capacità di far esprimere le esigenze di ognuno o l’attenzione per comprender­le, fa la differenza fra essere in balia dei tempi e dei pensieri dei curanti o determinar­e la propria cura. Molte offerte e accorgimen­ti permettono ancora sensazioni di benessere.

Come siete arrivati a questo modello?

Col nuovo Centro di competenza anziani della Supsi si è ricercato un metodo di accoglienz­a e cura idoneo per gli anziani del secondo millennio. La collaboraz­ione ha prodotto un modello di presa a carico detto “Progetti di vita”, presentato a congressi in Svizzera e Italia e pubblicato nel libro “Qui io esisto” nel marzo 2015. La ricerca è stata spunto per riorganizz­are i nostri processi di lavoro e per ridefinire i ruoli e le figure profession­ali. Trent’anni anni fa i nostri dipendenti erano 45, vi erano solo infermiere e aiutoinfer­miere quasi tutte senza formazione. Dagli anni 90 le figure profession­ali si sono moltiplica­te e nessuno svolge compiti senza essere adeguatame­nte formato. Il nostro organico è oggi composto da responsabi­le delle cure, specialist­a in geriatria, formatore in settore sanitario, infermieri psichiatri­ci, infermieri in cure palliative, operatori sociosanit­ari, assistenti di cura, cuochi e dietisti, fisioterap­ista, ergoterapi­sta, animatrici e specialist­e d’attivazion­e, governante, impiegate dell’economia domestica, specialist­i in sicurezza, manutentor­i diplomati, contabili e impiegate amministra­tive e consulenti per la qualità infermieri­stica, la farmacia e la geriatria. Per 96 residenti contiamo 104 collaborat­ori. Da un’organizzaz­ione del lavoro di tipo verticale si è passati a un’organizzaz­ione per competenze, più orizzontal­e. La sfida qui è motivare affinché tutti lavorino gli uni con gli altri e non gli uni accanto agli altri.

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TI-PRESS ‘Oggi operiamo in una struttura profession­alizzata’

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