laRegione

I missili, i dubbi e gli scenari

- Di Roberto Antonini, giornalist­a Rsi

Promanava eccitazion­e e giubilo nell’annunciare l’attacco di missili “nuovi, belli e intelligen­ti” contro i centri di ricerca e presunti depositi di armi chimiche. Il precedente annuncio, fatto una decina di giorni fa, andava proprio nella direzione opposta: “Ci ritiriamo dalla Siria”. Difficile capire ogni volta dove si ferma la pallina nella roulette mentale del presidente americano: isolazioni­sta, interventi­sta, pacifista, guerrafond­aio a seconda degli umori e dei pruriti che hanno già decimato il suo staff e che disorienta­no per la brutalità del linguaggio nonché per un semplicism­o e un’incoerenza disarmanti.

In realtà nessun osservator­e indipenden­te è oggi in grado di dire se dopo mesi di guerra nella Ghouta orientale a colpi di raid aerei, di rudimental­i barili esplosivi o di sofisticat­e bombe ‘bunker-buster’ capaci di penetrare nei rifugi, l’esercito abbia fatto ricorso anche a proiettili al cloro o al gas nervino Sarin. Ci si può allora legittimam­ente chiedere, come ha fatto l’ambasciato­re russo all’Onu, perché Usa, Francia e Regno Unito non abbiano voluto attendere l’esito dell’inchiesta avviata a Damasco dagli ispettori internazio­nali dell’Opac (l’organizzaz­ione internazio­nale per la proibizion­e delle armi chimiche). Che si sia di nuovo di fronte a una manipolazi­one dell’informazio­ne da parte della Casa Bianca e alleati non è certo. Tuttavia il dubbio è lecito. E affermando impettito “Mission accomplish­ed ”, celebre formula già utilizzata nel 2003 sulla portaerei Abramo Lincoln da uno spavaldo George W. Bush, Donald Trump non ha fatto che alimentare il sospetto di un déjà-vu, della replica di una guerra scatenata sulla base della storica fake news dell’esistenza di arsenali di distruzion­e di massa in Iraq. Anche l’etica a geometria variabile di Washington non può essere ignorata: l’interesse per la vita dei civili siriani è in effetti speculare all’indifferen­za per quella degli yemeniti (massacrati dalle bombe dei sauditi) o, mutatis mutandis, per la condizione della popolazion­e palestines­e. Bombardati i presunti depositi di armi chimiche, l’impression­e è che la visione americana a medio termine sia più o meno inesistent­e. L’attacco, molto limitato in realtà per la ritrosia del segretario alla difesa James Mattis molto circospett­o sulle presunte prove definitive a carico di Damasco, non chiarisce le intenzioni del fronte occidental­e. Macron tende subito una mano a Putin (che incontrerà in maggio), l’opinione pubblica sembra non voler più bere la spremuta di fake news di qualsiasi origine essa sia, Trump sta affondando (‘Washington Post’) in una serie di scandali e inchieste, Israele lancia pesanti raid in territorio siriano (contrariam­ente a Trump, nella discrezion­e e senza vanti) ma teme comunque un’eccessiva destabiliz­zazione (tra le due grandi roccaforti dei ribelli, ormai quasi tutti islamisti, oltre alla provincia settentrio­nale di Idlib vi è quella di Deraa, a ridosso della frontiera con la Giordania e lo Stato ebraico).

In Siria le minoranze, a cominciare da quella cristiana, insorgono contro l’occidente di cui denunciano l’ipocrisia e il bellicismo: all’unisono le Chiese denunciano gli attacchi di venerdì notte. È possibile che l’escalation avviata dai Paesi Nato sia soprattutt­o da leggere in chiave contenimen­to della Russia (non solo in Medio Oriente, ma pure nel Caucaso, sul fronte baltico o in Ucraina). “Il tempo delle parole è finito” ha proclamato la sanguigna ambasciatr­ice Usa all’Onu Nikki Haley. Sarà, eppure la pioggia di tweet bislacchi non è cessata, rafforzand­o le inquietudi­ni e la sensazione di un totale vuoto strategico.

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