Deutsche Bank, globale, ma…
Beh, si chiama Deutsche Bank: quindi deve fare la banca tedesca. Non lo era più; ora dovrà tornare a esserlo.
Non è tanto che il Chief executive officer dal 2012 al 2015, l’indo-britannico Anshu Jain, non parlasse tedesco. Nemmeno che il Ceo appena licenziato, John Cryan, parlasse la lingua di Goethe ma comunque fosse inglese. O che il boss che aveva preceduto i due per dieci anni, Josef Ackermann, fosse svizzero. La questione è che la maggiore banca della Germania aveva deciso di essere globale, di sfidare i giganti americani del settore, appunto di essere meno tedesca, ma non c’è riuscita. L’insuccesso era chiaro da tempo. Ma la decisione presa la settimana scorsa dal presidente Paul Achleitner e dal Consiglio di sorveglianza di sostituire Cryan con Christian Sewing – 47 anni, tedeschissimo – certifica il fallimento di quella strategia. Il gigante di Francoforte torna a pensare soprattutto in termini domestici.
Inversione di rotta
Per essere sinceri, la presa d’atto non è ufficiale. E di attività non tedesche molto significative il gruppo ne ha parecchie. La presenza in America c’è – le entrate 2017 sono state di quasi sette miliardi di dollari – anche se è in via di riconsiderazione. In Italia, per dire, la banca è forte e fa profitti. Ma che l’obiettivo di sfidare nel mondo nomi come Jp Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of America sia svanito è una realtà. Deutsche Bank vuole, ancora oggi – l’ha ribadito Achleitner –, essere un istituto universale, che fa tutto, dalla banca commerciale all’investment banking. Ma è proprio nell’attività di banca d’investimenti che si può essere globali e qui gli uomini e le donne di Francoforte non hanno saputo vincere la sfida. Deutsche Bank è uscita dalla classifica delle prime cinque globali nel 2016: l’anno scorso, la sua attività di investment banking ha realizzato entrate per 2,6 miliardi di dollari, ottava al mondo superata da Jp Morgan (6,6 miliardi), Goldman Sachs, BofA Merrill Lynch, Citi, Credit Suisse, Barclays. Anche considerando la sola Europa, Deutsche è terza dietro alle solite Jp Morgan e Goldman.
In Europa maggior prudenza
Ci sono diverse ragioni per le quali le banche europee sono uscite dalla crisi del 2008 più lentamente e sono quindi state penalizzate sul mercato più di quelle americane. Queste ultime sono state immediatamente salvate dal governo di Washington attraverso il famoso Tarp (700 miliardi di dollari poi diventati 475) ideato dall’allora segretario al Tesoro Hank Paulson e quindi costrette a ristrutturarsi. Le europee si sono mosse con molta maggiore prudenza, con le autorità del Vecchio Continente che a lungo hanno negato i problemi dei loro «campioni» finanziari per evitare l’imbarazzo. Deutsche Bank, però, sembra avere fatto anche di tutto in proprio per non riuscire a sostenere lo sviluppo globale. Un’avventura che ha mostrato il limite culturale dell’istituto di Francoforte quando si deve confrontare con mercati lontani dalla sua origine.
Multe, bilanci e reputazione
Dal 2012 a oggi, la banca ha pagato 15 miliardi in multe e costi legali per passate pratiche scorrette in più di un mercato: la manipolazione del tasso d’interesse interbancario Libor, la vendita di titoli di dubbia qualità sui mutui americani, la partecipazione di alcuni trader delle filiali di Mosca e Londra a operazioni di riciclaggio. Costi alti per il bilancio e per la reputazione. Una situazione che ha portato alle dimissioni di Jain nel 2015. Il suo successore, Cryan, chiamato perché ritenuto un grande ristrutturatore e tagliatore di spese, non ha fatto male. Per molti versi, anzi, ha realizzato il lavoro difficile: ha ridotto i costi, ha introdotto miglioramenti di gestione, ha riorganizzato l’apparato informatico, ha chiuso le dispute legali, ha rafforzato il capitale. Due i suoi passi falsi. Innanzitutto, non è riuscito a riportare a livelli accettabili la redditività: tre anni di perdite (497 milioni di euro nel 2017) e una caduta del prezzo del titolo in Borsa superiore al 55% da quando ha preso la guida a metà 2015. Per l’assoluta insoddisfazione degli investitori. In secondo luogo, è entrato in rotta di collisione con il presidente del Consiglio di supervisione Achleitner. Prima, pare averlo irritato in quanto ha sostenuto di potere restare al vertice oltre la scadenza del suo contratto, nel 2020, senza averne discusso con il Consiglio. Poi, alla fine dello scorso anno, ha aumentato i bonus per il management di un miliardo: cifra che, si è poi saputo, sarebbe stata la stessa per la quale non avrebbe potuto rispettare il taglio dei costi nel 2018. Nella notte dell’8 aprile, dunque, il presidente Achleitner ha convocato una videoconferenza urgente con il Consiglio e lo ha dimesso.
A che tipo di banca puntare?
Ora, Sewing – che ha una reputazione di manager senza grilli per la testa – dovrà cercare di ripensare a che tipo di Deutsche Bank puntare. Achleitner dice che non si tratta di discutere di strategie ma di «realizzazione». Improbabile. È vero che, di base, Sewing parte da una situazione migliore di quella che trovò Cryan. Ma è anche vero che sono passati tre anni e il capitale di fiducia, interno ed esterno alla banca, sulla capacità di tornare a buoni profitti si sta riducendo. Andare avanti sulla strada tracciata dal Ceo appena deposto non è probabilmente una buona idea. Un problema sarà sedare le divisioni interne al vertice operativo, sfuggite di mano a Cryan. Soprattutto, però, la grande sfida del nuovo Ceo riguarda il destino delle operazioni negli Stati Uniti: per una banca sempre più tedesca, che lavora in gran parte con imprese della Germania e le deve accompagnare sui mercati esteri, è meglio tenerle, ridurle, abbandonarle? Si tratta di una decisione strategica e la dovrà discutere con il presidente Achleitner. Il quale, a dire il vero, non raccoglie la fiducia cieca dei mercati: guida il Consiglio di sorveglianza dal 2012 senza particolari successi, se non nella velocità con la quale cambia i Ceo. In più, è austriaco in una banca ormai tedesca.