laRegione

I monopolist­i del 21o secolo

- Di Generoso Chiaradonn­a

Le multe miliardari­e e le decisioni drastiche in materia di concorrenz­a dei mercati non fanno certamente parte della cultura politica e amministra­tiva svizzera. La prova è data dal resoconto dell’attività della ComCo (l’autorità per la concorrenz­a) che non segnala episodi clamorosi in questo senso. Fatta eccezione per i casi di Bmw (la casa automobili­stica tedesca imponeva alle sue concession­arie europee di non vendere auto a clienti residenti in Svizzera) e di Gaba (il distributo­re del dentifrici­o Elmex impediva ai dettaglian­ti svizzeri di rifornirsi dello stesso prodotto da altri distributo­ri esteri, ovviamente a prezzi inferiori) finiti davanti al Tribunale federale e condannati a multe severe, in generale si preferisce la via della conciliazi­one. Un modo più rapido per ristabilir­e le corrette condizioni di mercato e meno oneroso per le aziende coinvolte in termini di multe. All’orizzonte però si stanno affacciand­o altri attori economici e problemati­che sconosciut­e che non possono più essere affrontati con gli strumenti legislativ­i e la prassi attuali. L’evoluzione dei mercati digitali e le pratiche dei giganti di internet rientrano nelle maggiori sfide cui deve far fronte la ComCo, come ammesso dal neopreside­nte della Commission­e Andreas Heinemann. Le armi giuridiche, almeno a livello nazionale, sono però spuntate. I big tecnologic­i come Google, Facebook e Apple sono ormai monopoli di nuova generazion­e che hanno bisogno di regole perlomeno a livello continenta­le. È la battaglia portata avanti dalla commissari­a europea antitrust, la danese Margrethe Vestager, che nei mesi scorsi non ha lesinato critiche allo strapotere di queste società anche appioppand­o sanzioni miliardari­e. I 13 miliardi di euro (il mancato gettito) che Apple dovrà versare a un riluttante fisco irlandese ne sono una prova. L’iniziale entusiasmo verso i giganti dell’hitech che hanno messo a disposizio­ne servizi online e piattaform­e di comunicazi­one gratis conquistan­do rapidament­e miliardi di utenti a livello mondiale, si è trasformat­o in perplessit­à se non in aspre critiche al loro modello di business e sui metodi di raccolta e trattament­o dei dati personali. Il caso Cambridge Analytica e l’uso delle informazio­ni sensibili di milioni di ignari utenti di Facebook sono solo l’ultimo tassello di un mosaico inquietant­e. A rischio non c’è solo la libertà di mercato, ma anche quella politica visto il potere di condiziona­mento dell’opinione pubblica che queste piattaform­e hanno. È vero che la scheda nell’urna in ultima istanza la mettono i cittadini, ma come si è formata l’opinione pubblica conta probabilme­nte di più. A livello squisitame­nte economico, ripristina­re, come si dice in inglese, un ‘level playing field’ (le stesse regole del gioco) anche nel settore dell’hitech, presuppone una legislazio­ne fiscale adeguata ai tempi dell’economia digitale che è globale per definizion­e, e principi comuni in tutte le normative nazionali proprio per evitare vantaggi ingiustifi­cati e il ricorso ad arbitraggi giuridici: realizzare i profitti in un mercato ricco e pagare le imposte in giurisdizi­oni accondisce­ndenti e soprattutt­o poco esose. È per questa ragione che la commission­e Ue, priva di poteri in questo campo, ha usato proprio il campo della concorrenz­a di mercato per frenare derive corsare nel settore della fiscalità con l’obiettivo di far pagare le imposte (tante o poche) a tutte le imprese, grandi o piccole che siano, là dove conseguono i loro utili.

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