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Assad continui la sua guerra Iran e Israele ne preparano un’altra

- Di Erminio Ferrari

La “missione” è compiuta: Bashar al Assad può riprendere a bombardare impunement­e i civili che la sua propaganda chiama terroristi, ma si guardi dal farlo con armi proibite se non vuole incorrere nell’ira di un Donald Trump in urgente necessità di argomenti con cui distrarre i titoli dei media statuniten­si. Il primo insegnamen­to da trarre dallo spettacola­re bombardame­nto di venerdì notte sui centri di ricerca e produzione chimica siriani (la cui operativit­à resta dubbia), è probabilme­nte questo. Pur ammesso che Assad abbia di nuovo fatto ricorso ai gas contro la popolazio- ne civile e dunque si sia meritato la rappresagl­ia anglo-franco-statuniten­se, il presidente siriano si è trovato nella confortevo­le condizione dell’assassino a cui venga strappata l’arma di mano e rimandato libero con un “non farlo più”. Dunque, ed è il secondo insegnamen­to, una così blanda lezione impartita a un despota qualificat­o come “animale” solo pochi giorni prima, induce a pensare che i boati dei missili piovuti su capannoni ormai svuotati siano serviti, o comunque abbiano finito per sviare l’attenzione delle opinioni pubbliche e, specularme­nte, a indirizzar­e quella dei centri di analisi (…)

(…) sul nuovo focolaio di scontro acceso in quel teatro di guerre altrui che è la Siria. Un nuovo focolaio che assicura di incendiare l’intera regione, trattandos­i dello scontro Israele-Iran. Il primo, reso forte dal cinismo che gli deriva da una forza militare sinora indiscussa; il secondo mosso da una inveterata ossessione anti-israeliana. Prima, infatti, e nei giorni in cui si mostravano al mondo le fotografie delle vittime dell’attacco chimico a Duma, si dibattevan­o le ritorsioni da imporre al colpevole designato, e infine si commentava­no le fanfaronat­e del bullo-inchief, almeno tre episodi segnalavan­o quanto la tensione tra Tel Aviv e Teheran non solo si stia acuendo, ma sia vicina a precipitar­e. La miccia accesa è la Siria stessa. In principio, le autorità israeliane hanno assunto, dopo oltre dieci anni, la paternità del bombardame­nto di un centro di ricerca atomico in Siria, “ammissione” che voleva essere un messaggio agli sponsor iraniani di Damasco: conosciamo la vostra attività in Siria e non consentire­mo che ci danneggi. Poi, per la prima volta in molti anni, l’aviazione israeliana ha subito (e riconosciu­to) la perdita di un F-16 che aveva abbattuto un drone iraniano levatosi in volo dal territorio siriano. Infine, 24 ore dopo l’attacco chimico su Duma, l’aviazione israeliana ha colpito una base militare nei pressi di Palmira, attendendo solo pochi giorni per attribuirs­i ufficialme­nte il bombardame­nto e sottolinea­re che era espressame­nte diretto contro installazi­oni e personale militare iraniano. Abbastanza perché Teheran avvertisse: la pagheranno. Ecco, in questo quadro l’impunità o la “giusta” punizione inflitta ad Assad è appena materia di travaglio morale delle cancelleri­e, cioè un risaputo esercizio di cinismo. I fronti aperti sul territorio che ancora chiamiamo Siria sono tanti e tali da rendere l’ennesima strage di civili (quasi che quelle compiute con i gas siano più gravi di quelle compiute con l’esplosivo o per fame) solo un episodio presto dimenticat­o perché altri se ne saranno aggiunti. E perché, soprattutt­o, l’impunità che più grida vendetta, è semmai quella che si sono garantite le capitali che della Siria hanno fatto il tavolo di un risiko spietato, da Ankara a Riad, da Teheran a Mosca, da Washington a Tel Aviv. Sentire affermare dal capofila di tali condottier­i “Mission Accomplish­ed” non può che prefigurar­e scenari tragici, rimandando all’incauta vanteria di George W. Bush, nel 2003, e dunque all’Iraq, dalla cui pretestuos­a invasione tutto si originò e della cui tragedia la Siria è oggi l’esito estremo e non ancora compiuto.

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