L’altrui maggio
Da Varsavia a Praga un Sessantotto che fece storia, seppure non visto né ricordato
‘Même si vous vous en foutez, chacun de vous est concerné’. I versi originali della canzone del Maggio francese, da noi nota per la traduzione che ne fece Fabrizio De André per il suo album ‘Storia di un impiegato’, volevano essere una denuncia, mentre dopo cinquant’anni paiono esprimere una speranza, o una illusione. L’origine, le sviste e il destino di quel fermento nell’intervista allo storico Guido Crainz, curatore del volume ‘Il Sessantotto sequestrato’ (ed. Donzelli). Professor Crainz, si dice ’68, ma, se non sbaglio, le manifestazioni del cambiamento si estesero agli anni precedenti e a quelli successivi. Che cosa fu determinante perché quell’anno diventasse eponimo?
È vero che l’incubazione del ’68 va ricondotta agli anni precedenti, nei Paesi dell’Europa occidentale non meno che in quelli detti allora d’oltrecortina. Le prime occupazioni nelle università e i fermenti nelle scuole superiori vanno datati almeno al 1964, pensiamo alle proteste di Berkley, negli Usa. Certamente nel ’68 si manifestò ciò di cui parlava Hanna Arendt riferendosi all’insieme dei movimenti: una generazione unita da una sorprendente volontà di agire e da un’altrettanto sorprendente fiducia nella possibilità di cambiare. Questo fu probabilmente il principale elemento unificante. In qualche modo, in quell’anno accadde ciò che nella memoria europea fu a lungo ricordato per gli stessi motivi, il 1848: una coincidenza di spinte, nazionali, costituzionali, ma anche sociali, come in Francia. Anche allora coagularono – almeno nella loro definizione – fermenti diversi, ma coincidenti temporalmente e dunque con la capacità di rafforzarsi vicendevolmente. Ogni Paese ebbe le proprie specificità: i giovani del ’68 tedesco pretesero che si facesse luce sulle responsabilità e le complicità con il nazismo della generazione dei padri, sino ad allora tenute loro nascoste. Fu un loro merito. In Italia il contrasto opponeva istituzioni ancora molto arretrate a una società in rapida trasformazione, da Paese contadino a Paese industriale. Due velocità del cambiamento quasi inconciliabili, pensiamo all’effetto della scolarizzazione di massa. Ma decisiva fu l’esperienza statunitense: dalle manifestazioni per i diritti civili alle proteste contro la guerra in Vietnam, un fermento che attraversò l’Atlantico e si impose nelle manifestazioni anche in Europa.
Si può dire che la spinta antiautoritaria fu l’elemento di continuità tra i molti Sessantotto, in Europa e negli Usa?
Certo. La chiave delle società del tempo era l’autoritarismo. L’unico modo a disposizione della cultura “vecchia” per imporsi era quello autoritario. Era l’autodifesa di una società superata. E certamente l’opposizione a questa rigidità ideologica, morale fu l’elemento unificante. Ciò che tuttavia è stato a lungo trascurato nella lettura posteriore di quegli anni è che questo sommovimento non fu meno importante nei Paesi dell’Est Europa, quelli del Patto di Varsavia. I giovani polacchi di allora leggevano gli stessi libri, guardavano gli stessi film e ascoltavano la stessa musica. I primi scontri, non politici, del pre-sessantotto di Varsavia, avvennero nel 1967 a un concerto dei Rolling Stones, con le dinamiche identiche a quelle di Londra o Milano. Si può dire che nel ’68 si manifestò una circolazione culturale internazionale che in precedenza non era stata mai così forte, della quale la stessa musica giovanile fu un vettore formidabile.
Il ’68, ha scritto lei, non fu tanto rilevante per quanto avvenne a Parigi, Berlino, Milano, ma piuttosto per gli eventi di Praga, Varsavia. Si trattò da noi di una ‘crisi di crescita,’ da ‘loro’ di una di sistema?
Per la storia successiva dell’Europa, fu certamente più importante il ’68 esteuropeo. Ciò che avvenne in Italia, Francia, Germania fu certamente importante per il rinnovamento e la modernizzazione di quei Paesi. Ma guardiamo alla storia successiva dell’Europa, prendiamo pure come elemento più significativo il mitizzato maggio francese, che allora sembrò portare la rivoluzione nel cuore dell’Europa: non ne è rimasto assolutamente nulla. Gli effetti successivi furono irrilevanti. Mentre è molto chiaro che cosa avvenne nei Paesi dell’Est, dalla Cecoslovacchia alla Polonia: la loro esperienza sancì in modo definitivo che il comunismo non era riformabile. Gli stessi protagonisti delle proteste “entrati” nel ’68 portando con sé la propria cultura marxista (da Michnik a Kuron e Modzelewski, che erano trotzkisti e per questo erano stati anche in galera, sino agli stessi protagonisti della Primavera di Praga), capirono che la strada doveva essere diversa, la prospettiva doveva essere un’altra. E infatti più tardi diedero vita al Comitato di difesa degli operai in Polonia e a Carta 77 in Cecoslovacchia. Ed è vero che poi ci si stupì della presenza di Michnik e Kuron nel sindacalismo cattolico di Solidarnosc, ma c’era una logica non così sorprendente: nel 1968 la sola forza che in Polonia si era opposta alla campagna contro studenti e operai era stata la chiesa cattolica, in particolare un vescovo di nome Karol Woytjla. Un particolare da non trascurare, se si ricorda che nel 1968 in Polonia la repressione di studenti e intellettuali avvenne all’interno di una virulenta campagna antisemita. La dimensione di questo fenomeno dovrebbe finalmente venire compresa e studiata. Non farlo è segno di miopia che chiama in causa il nostro modo di concepire l’Europa, chiuso e rivolto essenzialmente a ovest. Fu Kundera a ricordarcelo: ‘Noi – protestò – siamo Europa. L’Urss ci ha sequestrati, e voi ci avete abbandonati’.
Singolarmente, i pochi a capirlo, in Italia, furono quelli del Manifesto, da posizioni ben di sinistra: ‘Praga è sola,’ titolarono.
Si trattò di una solidarietà encomiabile. Per due ragioni: fu espressa da una generazione (pensiamo a Rossana Rossanda) che, in cuor suo, forse si rimproverava di non avere protestato abbastanza per l’invasione dell’Ungheria. Il secondo motivo di pregio è che si trattò della solidarietà incondizionata da parte di chi pure nutriva una visione del socialismo ben diversa da quella della “Primavera di Praga”(il loro riferimento era la Cina di Mao). Fu il sostegno ammirevole da parte di chi pur sosteneva l’attualità della rivoluzione in Europa, una cosa che a Praga aveva tutt’altro significato.
Il ’68 generò anche un terzomondismo genuino, che, in nome dell’antimperialismo, finì però per esaltare regimi che si sarebbero rivelati autoritari e feroci. Fu un abbaglio o una necessità?
Gli abbagli risalgono già agli anni precedenti: dall’infatuazione per la rivoluzione culturale cinese alla mitizzazione del ‘socialismo libertario’ di Cuba. Ciò che trovo incomprensibile – e lo dico perché si trattò di abbagli di cui fui partecipe – è che quando Cuba e il Vietnam del Nord approvarono l’invasione della Cecoslovacchia, questo non provocò alcuna indignazione nel movimento studentesco italiano. Per poi scoprire, ad anni di distanza, i metodi impiegati dal regime castrista sull’isola, le sue avventure militari al servizio dell’Urss in Africa; che cosa significò la rivoluzione culturale scatenata da Mao; o di come si fuggiva dal Vietnam “liberato”. Ma l’aspirazione, illusoria, a un socialismo diverso era viva e comunque motivata. Che Gue- vara, lo si consideri come si vuole, fu pur sempre uno che si mise in gioco e pagò di persona. Non solo: il tema della sofferenza del Terzo Mondo era particolarmente presente anche nella cultura cattolica di allora: non pochi vescovi latinoamericani si espressero in qualche modo a favore delle lotte di liberazione. E anche nell’enciclica Populorum Progressio, di Paolo VI, si diceva che la violenza va condannata “a meno che” non si sia di fronte a regimi che coartano violentemente la dignità dell’uomo. Non dimentichiamo di che natura erano i regimi al potere in America latina, e quale disparità vigeva nella distribuzione della ricchezza in quei Paesi, e quali Paesi erano garanti (e beneficiari) di quelle ingiustizie. Non si può giudicare il terzomondismo senza considerare per intero quella realtà.
In Italia, nel giro di dieci anni si arrivò all’attacco al cuore dello Stato. Fu un portato del ’68? E perché solo in Italia la protesta adottò come metodo la violenza?
Non si possono dare risposte semplici. Tra il ’68 e la metà degli anni 70 in Italia si produsse una serie tale di eventi – da Piazza Fontana alla strategia della tensione – che faceva giustamente temere per la tenuta della democrazia. Il pericolo del colpo di Stato non era una paura infondata, o poteva non sembrarlo. Un dato però è abbastanza certo: è vero che alcuni dei protagonisti e dei capi delle formazioni armate del successivo terrorismo erano nati politicamente nel ’68, ma è vero che l’ondata di violenza cresciuta tra il ’77 e il ’78 ebbe come protagonisti giovani cresciuti in un contesto posteriore, come ebbe a riconoscere lo stesso Renato Curcio. Perché ciò non avvenne, ad esempio in Francia? La risposta che mi venne data da docenti francesi a un seminario a cui prendevo parte è che in Francia non esisteva un pericolo fascista. Forse è riduttivo dirlo, o potrebbe suonare giustificazionista, detto da noi italiani, ma in parte fu senz’altro così. Poi non c’è dubbio che nella cultura del ’68, pur nata pacifista – uno degli slogan più fortunati era pur quel “fate l’amore non la guerra” –, si passò dalla concezione di una violenza come strumento di difesa a quella come pratica di violenza liberatrice. Ma questo era pur parte della cultura marxista precedente. Pensi all’introduzione scritta da Jean Paul Sartre a ‘I dannati della terra’ di Franz Fanon: letta oggi, la sua legittimazione della violenza degli oppressi appare terrificante. Fanon poteva anche avere comprensibili ragioni, ma la teorizzazione che ne faceva Sartre è abbastanza impressionante. E questo elemento era nell’aria, è inutile negarlo, ma, ripeto, in assenza di circostanze precise non produsse violenza su scala paragonabile a quella conosciuta in Italia.
Infine: il rifiuto della delega, allora rivendicato come sacrosanto, può rispecchiarsi nel rifiuto odierno della rappresentanza? O è una lettura forzata?
Mi sta chiedendo se c’è qualche analogia tra la pratica e il mito dell’assemblea permanente e quello della rete. La mia risposta è no. L’assemblea era partecipazione, prima di generare (e degenerare) nuovi leader e gerarchie. La presa di parola era liberatoria, è innegabile, e motivo di crescita. Anche Sartre, intervenuto in un’assemblea di studenti, dovette aspettare il proprio turno prima di prendere la parola. Direi che, pur in modo diverso, la pratica assembleare e l’utilizzo della rete raffigurano tempi diversi della crisi della democrazia rappresentativa. La sola analogia che vedo è questa. Nell’assemblea ti mostravi, non potevi insultare uno e nasconderti con un clic. Non dobbiamo dunque prendere per buona la democrazia della rete, ma accogliere la denuncia su cui cresce. Poi tra le due sceglierei ancora l’assemblea, la presa di parola di chi non l’aveva mai presa. Quella sì, liberatrice e in qualche modo rivoluzionaria. Se ne era reso conto anche Luigi Longo, allora segretario del Partito comunista italiano: questi, disse riferendosi agli studenti, non mettono soltanto in discussione il capitalismo, ma anche noi stessi e la nostra organizzazione. Avrebbero dovuto cambiare molte cose, insomma, ma non cambiarono.