La carne e la luce
Breve tragitto nella migliore poesia italiana contemporanea, da Pusterla a Fresa e Benigni
La poesia è inascoltata, marginale, morta... Se ne dicono tante, nonostante i festival ad essa dedicati e i numeri che garantisce agli editori. E una vitalità innegabile, con molte voci più che significative...
Dicono che sempre meno si parli di poesia, dicono che i surrogati abbiano invaso anche questo innocente territorio irrinunciabile. Ma a noi non interessano i Guido Catalano o altri cabarettisti men che mediocri o parolieri senza musichetta, e abbiamo la fortuna di essere confortati da una notevole serie di bei libri, apparsi da piccoli o medi editori meritori, di alcuni dei quali mi piace essere convinto testimone positivo. Vorrei partire da quello che possiamo già considerare un classico, Alberto Nessi, che con il recente ‘Un sabato senza dolore’ (Interlinea, p. 120) ha confermato la sua maggiore e rara dote, che è quella di pescare nel basso e nel quotidiano dandogli limpida dignità di alta poesia. Ma certo quest’opera è già ben nota, essendo uscita poco dopo l’assegnazione del Gran Premio Svizzero di Letteratura a Nessi.
La cenere e la meraviglia
Parto invece da un altro bel nome, quello di Fabio Pusterla, prefatore dello stesso Nessi e autore di un piccolo libro prezioso, per acutezza intellettuale e impeccabile misura stilistica, ‘Variazioni sulla cenere’ (p. 50) che inaugura una nuova collana delle calabresi Amos Edizioni. La terra, il fuoco, la cenere, la realtà fittamente materica in cui siamo immersi, e che pure è attraversata dalla luce; una luce che è anche quella della poesia, di cui l’autore cita vari e importanti interpreti, da Dante a Betocchi. E l’efficacia di questa plaquette è anche nella forte tenuta di pensiero sottostante una serie varia e ricca di immagini, in prevalenza strettamente legate a luoghi precisi e a circostanze del vissuto. “Un poeta è profondamente coinvolto con le cose del mondo. Il suo compito è ricordare la grandezza possibile della nostra persona”. Così scrive, e ha ragio- ne, Maria Grazia Calandrone nel recente ‘Il bene morale’ (Crocetti, p. 190), nel quale la sua perlustrazione sensibile, febbrile, delle cose del mondo che vive in noi e attorno a noi, mostra un’energia e una generosità che intervengono anche sulla forma, aprendola in squarci lirici o molto più spesso a un fluviale dire prosastico di non comune effetto. Una proposta nuova anche in questo senso, che conferma la vitalità della sua poesia e la sua capacità di andare a fondo, tra amore e meraviglia quotidiana dell’esserci. Giovanni Tesio, critico tra i migliori della poesia d’oggi, ci sorprende felicemente con un ampio libro di sonetti, in dialetto piemontese, ‘Vita da cant e da canté’ (Centro studi piemontesi, p. 380) con bella prefazione di Pietro Gibellini. Tesio scrive in una parlata di campagna, di Pancalieri, piccolo paese a sud di Torino, e il bello è che la presunta gabbia formale non lo imprigiona affatto, ma gli dà anzi modo di controllare un gioco sottile fitto di interni rimandi e stilizzazioni. Si definisce uomo che vive standosene a lato e fa scaturire dalla terra stessa la sua parola, e della parola egli ha suprema cura, come dev’essere per il poeta e per l’uomo civile prima ancora. Tesio ha la semplice umiltà del vero sapiente, in un religioso accordo tra poesia e vita. Ma spesso, oggi, il critico è anche poeta, e non certo per vano esercizio, come è certo nel caso di Alberto Bertoni, che raccoglie le sue ‘Poesie 1980-2014’ da Aragno (p. 296). In lui la verità del proprio vivo sentimento dell’esistere si esprime in note assai chiare e senza infingimenti, con talvolta qualche spraz- zo dialettale emiliano. Amore e morte – come dichiara l’autore in una sua nota – ne decidono il tracciato lirico, ma sempre e comunque lo alimentano elementi tratti dall’esperienza e dagli affetti, disegnando un percorso ultratrentennale che si fa apprezzare per la grande affabilità e naturalezza comunicativa della pronuncia.
Risalendo verso l’infanzia
Tra le voci più mature delle ultime generazioni possiamo inserire due poeti quasi coetanei, e cioè Mario Fresa (classe ’73) e Corrado Benigni (’75), che escono con due nuovi libri, rispettivamente ‘Svenimenti a distanza’ (il Melangolo, p. 142) e ‘Tempo riflesso’ (Interlinea, p. 86) ed entrambi alternano al verso la prosa poetica. Benigni è netto, meditativo (centrale l’indagine del suo pensiero sul tempo, colto anche come “un lento risalire verso l’infanzia”), interessante il suo sguardo penetrante sul minimo, di “innumerevoli esseri senza nome”, e sulla ricchezza delle superfici e delle apparenze, sull’interna organizzazione delle cose che si rivela allo spirito dell’osservatore attento, come è lui. Fresa è più espanso, narrativo, internamente mosso da una evidente inquietudine stilistica. Il suo testo è materico e carico di presenze varie, frutto di una inclusività antiretorica, pur con sporadici scatti di sintesi epigrammatici. Un modo particolare, il suo, di perlustrare il reale nelle sue varie configurazioni, fino a dilatarne i confini in liberissimi approcci personali. Vorrei concludere citando, come non sarebbe corretto fare, essendone io stesso prefatore, ‘Madre assenza’ (La vita felice, p. 105) di Massimo Daviddi per la pastosa concretezza del suo dire e della sua aperta e sensibilissima umana pietas, e insieme a lui – e lo faccio in colpevole ritardo, non avendone avuto precedenti opportunità – Ugo Petrini, per un libro non recentissimo, edito da Giampiero Casagrande, ‘Le gazzelle di Thomson’ (p. 126, prefazione di Alessandro Martini) per l’asciuttezza felicemente ruvida della pronuncia, della sua musica aspra in versi brevi, tra realtà minute e “reliquie della vita”, nella pluralità di svariate presenze animali e vegetali. E all’insegna del ruminante esotico con cui nel titolo etichetta la sua avventura poetica.