laRegione

Ed ecco apparire Kim il pacifista

- Di Aldo Sofia

Soltanto sulla base di uno sguardo superficia­le in molti lo hanno sempliceme­nte considerat­o un folle. Folle la ferocia dittatoria­le con cui liquida i suoi veri o presunti nemici interni; e folle il programma (99 lanci di missili balistici, e quattro test nucleari) della sfida nucleare alla prima potenza mondiale. In realtà, la stella polare del ‘terzo Kim’, erede della dinastia comunista che guida da alcune generazion­i la Corea del Nord con pugno di ferro e con uno spasmodico culto della personalit­à, è sempre stata la sopravvive­nza del regime. Con ogni mezzo. Le armi. Ma anche la realpoliti­k. Seguendo la prassi del nonno e del padre: portare al limite il braccio di ferro, ma fermarsi sull’orlo del baratro, negoziare per raccoglier­e il massimo ottenibile, per poi ricomincia­re. È stato così con tutti i presidenti americani, impegnati nella difesa dei suoi interessi strategici, dei propri alleati asiatici. Pratica applicazio­ne, per Kim, di una delle più note massime del filosofo e stratega cinese Sun Tzu, che nell’‘Arte della guerra’ ammonisce: “L’invincibil­ità sta nella difesa, la vulnerabil­ità sta nell’attacco. Se ti difendi sei forte, se attacchi sei più debole”. Il tutto dominato dalla certezza che la guerra vinta è quella che non si combatte. Anche questo sfondo filosofico spiega perché, dopo mesi di insulti, escalation verbal-militari, esaltazion­e del “pulsante nucleare più potente” (in buona dose ricambiato, come fra adolescent­i rissosi), Kim Jong-un annunci la fine degli esperiment­i atomici e l’abbandono del sito dei test nucleari, “che ha concluso la sua missione”. In questo modo offrendo ad un entusiasta Donald Trump il primo successo sullo scacchiere internazio­nale, che va riconosciu­to. Apertura sincera e definitiva, o micidiale trappola politica? Come detto, i precedenti inducono alla prudenza. Tanto più che il dittatore di Pyongyang non ha annunciato la denucleari­zzazione del suo Paese. Ci sono comunque aspetti immediati e concreti nella svolta del giovane Kim. Possono aver avuto un peso le sanzioni economiche (a cui si è associata formalment­e anche Pechino), anche se un peso relativo per un Paese autarchico e costretto in povertà dalla sua dirigenza. Ha sicurament­e inciso il calcolo di un avviciname­nto alla Corea del Sud (per nulla convinta dei toni minacciosi della Casa Bianca) e il timore di una vigorosa militarizz­azione del Giappone. Ha inciso la pressione della Cina, salvagente economico di Pyongyang, naturalmen­te interessat­a alla sopravvive­nza di un regime che agisce da cuscinetto ed evita il contatto diretto con la forza militare statuniten­se. Infine, e soprattutt­o, Kim vede la concreta possibilit­à che l’America abbandoni l’idea di un ‘regime change’ a Pyongyang, quindi che ufficializ­zi la sua garanzia per la continuità del regime. Ma una Corea del Nord con o senza arsenale atomico? Qui sta l’incognita del futuro negoziato. È possibile che Washington ritenga (come suggerito da diversi esperti) che in realtà la ‘bomba’ di Kim non rappresent­i ancora una autentica minaccia, che i suoi missili siano facilmente neutralizz­abili, e dunque che basti un congelamen­to dell’attuale ‘forza nucleare’ nordcorean­a. Se così non fosse, Trump raccoglier­ebbe un frutto succoso, politicame­nte allettante. Ma poco più.

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