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Se la politica ritrova sostanza

- Di Aldo Bertagni

Il tempo è galantuomo. La saggezza popolare, non lo scopriamo oggi, contiene semplici verità. A un anno dalle prossime elezioni cantonali (aprile 2019) la maggioranz­a politica ticinese dovrà (finalmente) affrontare un problemucc­io che ha quasi sempre cercato di evitare con fumogeni e presunte priorità: il riequilibr­io del potere d’acquisto dei cittadini qui residenti. Detta in altra maniera, una più equa ridistribu­zione della ricchezza. Perché non basta garantire le risorse allo Stato per poter dire che il Paese sta bene. Sarà dunque un anno politicame­nte interessan­te quello che ci apprestiam­o a vivere, da aprile ad aprile, grazie all’inevitabil­e dibattito – imposto dal voto popolare – sul salario minimo ticinese. Trovate le risposte giuridiche, grazie al Tribunale federale che ha fatto chiarezza sul principio, resta da decidere – si fa per dire – la sostanza del provvedime­nto. Il quanto e il come. E toccherà al Gran Consiglio, in primo luogo, fare la scelta definitiva (ricorsi e referendum permettend­o) sul progetto presentato dal Consiglio di Stato. Non sarà una passeggiat­a. Intanto perché già i partner sociali (sindacati e associazio­ni economiche), convocati dal Dfe a un tavolo di trattative, si sono divisi e la medesima separazion­e si direbbe riproposta fra i partiti. Stabilito il principio, a quanto dovrebbe ammontare il salario minimo? Non meno di 20,75 franchi all’ora sostengono sindacati e sinistra; non più di 18,75 franchi all’ora rispondono imprendito­ri e centro-destra. La partita si gioca dunque su una forbice che potrebbe oscillare fra i 3’000 e i 3’500 franchi mensili, date le 42 ore settimanal­i. Il salario minimo, va detto, è cosa ormai assodata in quasi tutti i Paesi europei (Italia esclusa), come ha riferito ieri ‘Repubblica’ pubblicand­o un’interessan­te tabella. Il tetto massimo salariale cambia da realtà a realtà perché calibrato col potere d’acquisto locale. Si oscilla così dai 260 euro mensili della Bulgaria, che salgono a 462 in Croazia, ai 1’998 euro del Lussemburg­o o ai quasi 1’500 euro della Francia, giusto per fare alcuni esempi. In Germania il salario minimo ammonta invece a 1’497 euro, mentre in Belgio si situa a 1’562 euro mensili. La forchetta ticinese, come detto, oscilla fra i 2’500 e i 2’752 euro mensili. Tanti, pochi? Questo è il nodo da sciogliere. Stando al Tribunale federale, il salario minimo cantonale non deve superare il finanziame­nto pubblico per il sostegno sociale. Perché altrimenti la competenza passa alla Confederaz­ione. Secondo gli esperti di Eurofound (l’agenzia Ue che ha pubblicato i dati ripresi dal quotidiano italiano) la retribuzio­ne stabilita per legge non favorisce la disoccupaz­ione se resta sotto il salario mediano – in Ticino pari a 6’100 franchi mensili – e magari non va oltre il 60 per cento dello stesso. In caso contrario, aggiungono, si corrono due rischi opposti: l’opzione per l’aiuto sociale perché più convenient­e o lo sviluppo di lavoro nero perché troppo oneroso. Le due proposte ticinesi, come si nota, stanno a cavallo dei parametri sopra descritti: un poco sotto il 50 per cento del salario mediano (3’000 franchi) o poco sopra (3’500 franchi). Chi sostiene la seconda ipotesi, va detto, considera l’intero pacchetto sociale oggi a disposizio­ne in Ticino per i meno abbienti. Comunque la si pensi, il tema merita di guadagnare i primi posti dell’agenda nella prossima campagna elettorale cantonale. Così da permettere agli elettori, una volta tanto, di poter tornare a riflette sulla sostanza del proprio vivere e fors’anche sulla dignità e il senso di cittadinan­za.

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