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Da un momentum all’altro

Gaëtan Voisard e la ‘sua’ finale. ‘Certo che le differenze sono enormi’.

- di Christian Solari

In vita sua di finali ne ha giocate ben cinque, vincendone però solo due. «Senz’altro avrei voluto aggiudicar­mele tutte, ma lo sport è così. E poi in finale è difficile anche solo arrivarci». Parola di Gaëtan Voisard, che uno dei due titoli vinti in carriera l’ha conquistat­o proprio con la maglia del Lugano. «Era il 1999, il mio primo anno a Lugano», ricorda. L’altro, invece, risale all’avventura col Berna di due anni prima. «Certo che le differenze sono enormi – dice il 45enne ex difensore con alle spalle oltre mille partite in Lega nazionale, e oggi uno degli ‘agenti’ più affermati del Paese –. Pensiamo solo alla profession­alità indubbiame­nte maggiore dei gio- catori, confrontat­i con più partite, più allenament­i, più tutto. Poi ci sono le regole, che sono cambiate tantissimo. Un’evoluzione che ha dato la possibilit­à a elementi dotati delle migliori qualità tecniche e di pattinaggi­o di avere più influenza sul gioco. In Europa come in Nhl: infatti pure in America ci sono giocatori che misurano meno di un metro e ottanta e riescono a spiccare in ogni occasione, cosa che fino a 15 anni fa era sempliceme­nte impensabil­e, con tutte quelle trattenute, quei ‘cross check’, quegli agganci con il bastone. Oggi molto si basa invece sulla tecnica e sulla velocità. Gente come Grégory Hofmann, per fare un esempio relativo al Lugano, ora può mostrarsi molto di più che in passato». Quest’anno il titolo è un affare tra Lugano e Zurigo: stupito? «No. E pensando al Lugano non sono né sorpreso del fatto che sia in finale, né di ciò che sta facendo: ha saputo lavorare sulla costanza, sulla continuità, rinforzand­osi prima dei playoff con l’arrivo di un difensore straniero (Ryan Johnston, ndr) che si sta rivelando una buona scelta. Quando, invece, penso allo Zurigo mi viene in mente la forza della disperazio­ne, dopo una regular season in cui le cose non sono andate bene, visto che i Lions hanno faticato a trovare una loro identità a livello di squadra. Mentre nella postseason la squadra è cresciuta partita dopo partita, grazie alle tante individual­ità che hanno aumentato il livello delle prestazion­i». E il gruppo di Greg Ireland? «Ciò che amo di questo Lugano è il modo in cui ha saputo reagire nei momenti più difficili. Anche in questi playoff, pensando allo 0-2 all’inizio di semifinale e finale. È un segno del carattere, che si somma alle qualità di un gruppo che oltre all’esperienza possiede sì talento, ma pure la disciplina. Infatti parliamo di una squadra che lavora tanto».

‘Il Lugano? Non sono sorpreso né del fatto che sia arrivato fin qui, né di ciò che sta facendo’.

In tutto ciò, quanto contano le parole di un allenatore? «Difficile dirlo. Parliamo di piccoli dettagli, importanti non solo quando si perde ma pure quando si vince, siccome c’è sempre qualcosa in cui si può migliorare. Ma siamo a livello di meccanica di precisione. Per il resto, al giorno d’oggi i giocatori sanno bene attendersi, visto che non ci sono più segreti: non solo conoscono i loro avversari, ma sanno pure benissimo in che modo giocano. In un contesto simile è molto importante il cosiddetto momentum di ciascun individuo, che viene messo a servizio dell’intero gruppo». A proposito dell’intraducib­ile (in italiano) momentum: tra Lugano e Zurigo, ora chi ce l’ha? «Sinceramen­te ho l’impression­e che sia una continua alternanza, e naturalmen­te ciò rende ancor più appassiona­nte questa finale. Ma al tempo stesso spiega pure il perché di certi risultati. In una serie in cui basta un niente per ribaltare una partita. E lo si è visto». In altre parole, a questo punto più che la strategia contano le emozioni? «Non arriverei a tanto. Infatti la tattica sta alla base di tutto: non solo perché se sai cosa stai facendo va a finire che quando scendi in pista lo farai con una fiducia pure maggiore, bensì anche perché è solo grazie al sistema se puoi effettuare un passaggio a occhi chiusi, sapendo che in quell’esatta posizione ci sarà un tuo compagno. Però, questo è vero, quando arrivi in finale, ci vuole molto di più. Penso all’esperienza, all’euforia, ma anche a una buona dose di fortuna».

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TI-PRESS Nell’ottobre del 1999, con la ‘A’ cucita sulla maglia, in compagnia di Olivier Keller, Peter Andersson e Rick Tschumi

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