In mano ai banchieri centrali
Gli ultimi dieci anni sono stati contraddistinti da interventi straordinari degli istituti di emissione
Tassi negativi, quantitative easing ed exit strategy sono diventati ormai termini comuni e non solo per addetti ai lavori. Le sfide della Bns.
Nel corso dell’ultima crisi economicofinanziaria le banche centrali delle principali economie mondiali hanno giocato un ruolo determinante nel fronteggiare la situazione. La crisi scoppiata nel 2008 si è infatti da subito contraddistinta per scenari a carattere pandemico, con conseguenti manifestazioni su scala globale, sui mercati immobiliari, finanziari e valutari. L’intervento degli istituti d’emissione ha riportato alla ribalta il ruolo di prevenzione e di contrasto delle crisi economiche, nei limiti del loro mandato istituzionale.
Il 2 maggio prossimo il presidente della direzione generale della Banca nazionale svizzera (Bns), Thomas J. Jordan, sarà per la prima volta all’Università della Svizzera italiana (Usi) e terrà una relazione sulle sfide con le quali la Bns si confronta. L’evento, introdotto dal rettore dell’Usi Boas Erez e dal decano della Facoltà di scienze economiche Patrick Gagliardini, si svolgerà nell’Aula magna (campus di Lugano) con inizio alle ore 17. L’incontro si colloca nell’ambito delle attività dell’Istituto di economia politica (Idep) dell’Usi e del suo Master in economia e politiche internazionali (Mepin).
Dell’azione straordinaria delle banche centrali abbiamo parlato con Edoardo Beretta, docente di economia presso l’Usi e la Franklin University Switzerland di Sorengo.
L’ultimo decennio passerà alla storia come quello in cui le principali banche centrali (compresa la Bns) hanno utilizzato al massimo la loro leva monetaria. Non credo sia mai successo prima che sia stata messa a disposizione dell’economia una così elevata quantità di moneta. Queste manovre sono servite veramente a uscire − a livello internazionale − dalla crisi?
Si deve premettere che la crisi econo- mico-finanziaria globale dal 2007 ha costituito un episodio senza precedenti nella recente storia economica per ‘effetti contagio’ oltre che complessità di manifestazioni. Essa è scoppiata nel settore immobiliare americano con gli ormai noti mutui subprime, coinvolgendone l’ambito assicurativo-bancario e quello finanziario. Dopodiché la ‘slavina’ non si è curata di frontiere, colpendo le economie di Oltreoceano (dall’area euro fino al Giappone) laddove più deboli. Sarebbe però riduttivo affermare che la crisi europea abbia riguardato per lo più il debito (pubblico) e l’economia reale: in realtà, è stata ‘saggiata’ la tenuta della moneta unica. Di fronte a simili scenari pandemici le principali banche centrali − prima fra tutte, la Fed americana − non hanno potuto fare altro che iniettare liquidità nel sistema economico-finanziario (esposto a una pericolosa stretta creditizia), portando i tassi d’interesse ai minimi storici. A fronte di volumi elevati e prontezza d’intervento (pur a crisi in atto) la situazione è stata − più o meno efficacemente a seconda del Paese − tamponata. Le banche centrali sono consapevoli che il loro intervento da unico non sarà risolutivo nel mediolungo periodo (cfr. cosiddetta ‘neutralità della moneta’) e di qui gli appelli a riforme strutturali di carattere fiscale (e di bilancio) nelle rispettive economie. Certo è che gli istituti bancari centrali ben hanno saputo agire da ‘prestatori di ultima istanza’, allorquando nessun altro strumento di politica economica sarebbe stato così rapido.