Gli incantevoli cani di Wes Anderson
Chi ama il cinema di Wes Anderson, la sua ossessione quasi maniacale per i dettagli, la precisione geometrica delle inquadrature, i colori caldi della fotografia, i lunghi piani sequenza, le sue fiabe surreali, orfani, personaggi insoddisfatti, relazioni familiari tese, Bill Murray e tutto quello che fa dello stile di Wes Anderson lo stile Wes Anderson – chi ama tutto questo, si diceva, non potrà che amare anche ‘L’isola dei cani’, nono film del regista texano e suo secondo in stop motion dopo ‘Fantastic Mr. Fox’, tratto da un racconto di Roald Dahl. Questa volta la storia è originale: a causa delle malattie e della sovrappopolazione, nel Giappone nel 2037 i cani sono stati esiliati nell’Isola dei rifiuti al largo di Megasaki City, divenuta appunto ‘L’isola dei cani’. Il dodicenne Atari Kobayashi – cresciuto dal suo “lontano zio” nonché malvagio sindaco della città – scappa di casa e vola sull’isola alla ricerca del suo amato cane da guardia Spots. Una volta atterrato, inizia il lungo viaggio alla ricerca dell’amico a quattro zampe con l’aiuto di un branco di nuovi amici, mentre in città una studentessa straniera sospetta che la misteriosa influenza canina sia in realtà un complotto ordito dagli amanti dei gatti. Premiato alla Berlinale, ‘L’isola dei cani’ incanta lo spettatore – adulto o bambino poco importa – con la sua ambientazione in un Giappone futuristico e fantastico, con il suo mischiare lingue e linguaggi (parte dei dialoghi sono in giapponese), con le sue molte citazioni e ispirazioni cinematografiche, la sua morale semplice ma non banale e, appunto, il suo stile Wes Anderson.