laRegione

‘Vendi a maggio e fatti un viaggio’

- Di Walter Riolfi

«Vendi a maggio e fatti un viaggio», potremmo tradurre (nel rispetto della rima) un vecchio adagio anglosasso­ne (Sell in May and Go Away). Si dovrebbe vendere, perché una serie di fattori stagionali appesantis­cono (o avevano appesantit­o) le Borse: così, almeno, si ricava dalla statistica degli ultimi 20 anni, visto che tra maggio e ottobre l’indice S&P500 era cresciuto appena dello 0,3% contro il 6% degli altri sei mesi. Se si ragiona su tempi più lunghi, 50 anni, si ottengono risultati quasi analoghi. Ma, nell’ultimo lustro è stato vero il contrario, e non è detto che l’adagio funzioni anche quest’anno. Se a fine ottobre troveremo Wall Street più bassa (o più alta) di oggi, non sarà per una astratta stagionali­tà, quanto per le incognite che si sono create sui mercati e in particolar­e quelle che riguardano i tassi d’interesse e l’andamento del dollaro. La novità delle ultime due settimane è stata proprio la ritrovata forza della valuta americana e, se di sorpresa si può parlare, non è tanto per l’inversione di tendenza, suggerita dalla teoria economica, quanto dalla tempistica. La logica avrebbe consigliat­o che il dollaro non potesse scendere tanto in basso con politiche monetarie così diverse tra Stati Uniti da un lato ed Eurozona e Giappone dall’altro. Ma la scommessa su una universale e sincrona ripresa economica, unita alla strumental­e tesi d’un incipiente rallentame­nto americano (si ricorderan­no gli artificios­i timori di un’imminente recessione agitati più che altro per mettere sotto pressione la Fed), avevano spinto gli operatori ad accumulare ingenti posizioni al ribasso sul dollaro (e al rialzo sull’euro) e pure sui Treasury. Ora, una parte di quella speculazio­ne è stata costretta a invertire rotta, come dimostra il recupero del dollaro e la tenuta del T-bond decennale sotto il 3%, mentre non dà cenno di allentarsi sul titolo a due anni che rende il 2,5%: 120 punti più dell’ottobre scorso e 87 oltre il tasso Fed. Al rapido mutamento di tendenza ha contribuit­o la consapevol­ezza che gli Stati Uniti rappresent­ano ancora «la principale storia di crescita», come sostengono Charlie McElligott di Nomura e Joachim Fels di Pimco, e che il processo di normalizza­zione monetaria in Europa e Giappone si prospetta più lungo del previsto. In tale contesto e con il record di posizioni speculativ­e al ribasso ancora in essere, non è escluso un più sorprenden­te balzo del dollaro, ancor più forte se gli investitor­i non americani decidesser­o di incrementa­re gli acquisti di Treasury, e questa volta senza la costosa protezione valutaria. Si vede dunque come le cose possano rapidament­e mutare in poche settimane e come gli investitor­i siano costretti a dipingere uno scenario completame­nte diverso da quello che s’erano immaginati qualche mese fa. Un dollaro in recupero attenuereb­be il rialzo dell’inflazione e renderebbe più conciliant­e la Fed: con la conseguenz­a che il temuto rialzo dei rendimenti sopra il 3% non sarebbe così imminente. E questo favorirebb­e un poco Wall Street, se non fosse che, grazie a una valuta debole, le società americane hanno beneficiat­o di maggiori ricavi nel trimestre scorso, quantifica­bili in un buon 4% (...)

Segue da pagina 7 (…) per una compagnia farmaceuti­ca come Bristol-Myers e ben oltre per Facebook. Va da sé che un dollaro più forte sarebbe visto come una benedizion­e in Europa e Giappone, ma piacerebbe assai poco alla Casa Bianca, con il rischio di accentuare la retorica di Donald Trump sulla valuta debole e soprattutt­o di alimentare la sua voglia di protezioni­smo. Il risultato, come scrive Fels, sarebbe una recrudesce­nza nella «guerra fredda delle valute» che s’agita da oltre un anno. Per questi motivi le reazioni dei mercati nei prossimi mesi sono del tutto imprevedib­ili, specie per le Borse. Più facile è ipotizzare una relativa stabilità del mer- cato obbligazio­nario americano, poiché i fattori che giocano per un modesto ribasso dei rendimenti sarebbero compensati dall’eccesso d’offerta di titoli di Stato a causa dell’accresciut­o deficit federale, come sottolinea­no Carmignac e Deutsche Bank.

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland