‘Vendi a maggio e fatti un viaggio’
«Vendi a maggio e fatti un viaggio», potremmo tradurre (nel rispetto della rima) un vecchio adagio anglosassone (Sell in May and Go Away). Si dovrebbe vendere, perché una serie di fattori stagionali appesantiscono (o avevano appesantito) le Borse: così, almeno, si ricava dalla statistica degli ultimi 20 anni, visto che tra maggio e ottobre l’indice S&P500 era cresciuto appena dello 0,3% contro il 6% degli altri sei mesi. Se si ragiona su tempi più lunghi, 50 anni, si ottengono risultati quasi analoghi. Ma, nell’ultimo lustro è stato vero il contrario, e non è detto che l’adagio funzioni anche quest’anno. Se a fine ottobre troveremo Wall Street più bassa (o più alta) di oggi, non sarà per una astratta stagionalità, quanto per le incognite che si sono create sui mercati e in particolare quelle che riguardano i tassi d’interesse e l’andamento del dollaro. La novità delle ultime due settimane è stata proprio la ritrovata forza della valuta americana e, se di sorpresa si può parlare, non è tanto per l’inversione di tendenza, suggerita dalla teoria economica, quanto dalla tempistica. La logica avrebbe consigliato che il dollaro non potesse scendere tanto in basso con politiche monetarie così diverse tra Stati Uniti da un lato ed Eurozona e Giappone dall’altro. Ma la scommessa su una universale e sincrona ripresa economica, unita alla strumentale tesi d’un incipiente rallentamento americano (si ricorderanno gli artificiosi timori di un’imminente recessione agitati più che altro per mettere sotto pressione la Fed), avevano spinto gli operatori ad accumulare ingenti posizioni al ribasso sul dollaro (e al rialzo sull’euro) e pure sui Treasury. Ora, una parte di quella speculazione è stata costretta a invertire rotta, come dimostra il recupero del dollaro e la tenuta del T-bond decennale sotto il 3%, mentre non dà cenno di allentarsi sul titolo a due anni che rende il 2,5%: 120 punti più dell’ottobre scorso e 87 oltre il tasso Fed. Al rapido mutamento di tendenza ha contribuito la consapevolezza che gli Stati Uniti rappresentano ancora «la principale storia di crescita», come sostengono Charlie McElligott di Nomura e Joachim Fels di Pimco, e che il processo di normalizzazione monetaria in Europa e Giappone si prospetta più lungo del previsto. In tale contesto e con il record di posizioni speculative al ribasso ancora in essere, non è escluso un più sorprendente balzo del dollaro, ancor più forte se gli investitori non americani decidessero di incrementare gli acquisti di Treasury, e questa volta senza la costosa protezione valutaria. Si vede dunque come le cose possano rapidamente mutare in poche settimane e come gli investitori siano costretti a dipingere uno scenario completamente diverso da quello che s’erano immaginati qualche mese fa. Un dollaro in recupero attenuerebbe il rialzo dell’inflazione e renderebbe più conciliante la Fed: con la conseguenza che il temuto rialzo dei rendimenti sopra il 3% non sarebbe così imminente. E questo favorirebbe un poco Wall Street, se non fosse che, grazie a una valuta debole, le società americane hanno beneficiato di maggiori ricavi nel trimestre scorso, quantificabili in un buon 4% (...)
Segue da pagina 7 (…) per una compagnia farmaceutica come Bristol-Myers e ben oltre per Facebook. Va da sé che un dollaro più forte sarebbe visto come una benedizione in Europa e Giappone, ma piacerebbe assai poco alla Casa Bianca, con il rischio di accentuare la retorica di Donald Trump sulla valuta debole e soprattutto di alimentare la sua voglia di protezionismo. Il risultato, come scrive Fels, sarebbe una recrudescenza nella «guerra fredda delle valute» che s’agita da oltre un anno. Per questi motivi le reazioni dei mercati nei prossimi mesi sono del tutto imprevedibili, specie per le Borse. Più facile è ipotizzare una relativa stabilità del mer- cato obbligazionario americano, poiché i fattori che giocano per un modesto ribasso dei rendimenti sarebbero compensati dall’eccesso d’offerta di titoli di Stato a causa dell’accresciuto deficit federale, come sottolineano Carmignac e Deutsche Bank.