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Frammenti di una storia

Momenti di lettura / ‘La chiave nel latte’ di Alexandre Hmine, premio Studer/Ganz Docente e narratore, fra il Marocco delle sue origini e il Ticino in cui è cresciuto, Alexandre Hmine ci regala un romanzo di formazione di rara qualità nel nostro contesto,

- Di Roberto Falconi

Una marocchina fugge dal Paese d’origine in direzione della Svizzera. Ha diciassett­e anni ed è incinta. Deve evitare il disonore. Il figlio sarà affidato ad un’anziana vedova del Malcantone, l’Elvezia (l’unico personaggi­o di cui si conosce il nome), che se ne occuperà per parecchi anni. Sarà proprio questo figlio, ormai adulto, a raccontare la sua storia. Alexandre Hmine, fresco vincitore del Premio Studer/Ganz, esordisce con un romanzo (autobiogra­fico) di formazione centrato sul conflitto identitari­o del protagonis­ta, che si cristalliz­za attorno ad alcune laceranti dicotomie dalla forte valenza culturale (il Paese d’origine e quello d’adozione, il cibo giusto e quello sbagliato, la religione, l’arabo e il dialetto ticinese, che ibridano costanteme­nte la lingua), fino alla grottesca scoperta di non essere più certo nemmeno del proprio nome. Il racconto appare chiarament­e bipartito in due segmenti testuali di eguale estensione: la prima parte si svolge a Vezio, dove il protagonis­ta vive con l’Elvezia (mantenendo contatti regolari con la famiglia biologica) la sua spensierat­a infanzia, drammatica­mente interrotta dal decisivo spartiacqu­e della malattia dell’anziana donna, che rende necessario il ritorno, in una sorta di paradossal­e migrazione al contrario, nella casa della madre, che nel frattempo si è sposata con un marocchino, l’unico personaggi­o cui non sarà concessa alcuna pietas e dal quale avrà una figlia.

Dentro gli anni Ottanta

Il romanzo è attraversa­to da una serie di linee di tensione, seguendo le quali credo sia possibile misurare il percorso di crescita del protagonis­ta. L’asse portante è costituito dall’evoluzione del rapporto con la madre, quasi sempre descritta attraverso la sua forte carica sessuale e gli oggetti che possiede (in

particolar­e le automobili), implacabil­mente registrati dal figlio, la cui maturazion­e è scandita anche dalla progressiv­a conquista dell’indipenden­za economica. Una donna spesso maldestra, che per consolare la figlia della bocciatura scolastica non trova di meglio che rivelarle che è successo anche al fratellast­ro, ma con la quale infine sarà possibile una (ri)conciliazi­one. Vi è poi la graduale scoperta del sesso, dal primo film porno (scovato, non a caso, tra le videocasse­tte della madre), alle puntate di Colpo Grosso guardate di nascosto (e quello di Hmine è anche il romanzo generazion­ale di chi è cresciuto negli anni Ottanta del secolo scorso), ai rudimental­i suggerimen­ti di uno zio marocchino di rara simpatia, fino al primo bacio e alle prime relazioni, attraverso le quali l’istintiva attrazione fisica evolve nella pienezza del sentimento. Grande importanza è inoltre accordata ai vari sport, il tennis in particolar­e, nei quali il protagonis­ta appare subito tanto dotato quanto competitiv­o e restio dall’accettare le critiche; un atteggiame­nto che tenderà però a stemperars­i, facendo emergere il valore formativo della sconfitta ed emblematic­amente illustrato dalla precoce rinuncia al ruolo di calciatore per assumere quello di allenatore. Ed è questa una parabola simile a quella disegnata dal percorso scolastico. Specie a partire dagli studi liceali, imposti dalla madre e seguiti di malavoglia, tra scialbe figure di professori, fra le quali brilla però quella dell’insegnante di italiano, l’unico capace di toccare il cuore degli studenti; fino alla crescente passione che caratteriz­zerà gli studi pavesi in Lettere e alla scelta di intraprend­ere la profession­e di insegnante. E tra i suoi primi studenti vi sarà anche una diciassett­enne incinta, a chiudere, circolarme­nte, il processo di elaborazio­ne dell’abbandono materno. Anche l’(auto)ironia, una delle cifre peculiari del romanzo nonostante la drammatica crisi identitari­a narrata, mi pare che tenda a raffinarsi, ed è questo un altro segnale della progressiv­a maturità con la quale il protagonis­ta impara a guardare al mondo e a sé: è lui stesso a ridere della bizzarria di “un negro che studia letteratur­a italiana”.

Ricomponen­do un’identità

Ed è proprio la nostra letteratur­a a svolgere un ruolo cruciale all’interno del racconto, poiché l’io narrante comincia a trovarvi parte delle risposte che cerca. Spesso le grandi opere diventano motivo di litigio con la madre (Dante che caccia Maometto all’inferno); a volte di riflession­e più introspett­iva (gli Ossi montaliani letti di fronte al mare marocchino, ma anche la crisi identitari­a smossa dal Moravia de ‘Gli indifferen­ti’). Fino alla figura centrale di Saba, che appare in due luoghi topici del romanzo: in esergo, a sintetizza­re, col verso di una delle ‘Tre poesie alla mia balia’, tutta la vita del protagonis­ta; e in occasione dell’incontro con la figura paterna, non accusata, come avrebbe voluto la madre, di “essere il suo assassino”, ma vista nella sua fragilità ed incapacità di assumersi le proprie responsabi­lità. Sarà invece la scrittura, cui il protagonis­ta si avvicina progressiv­amente, a dare le risposte definitive. Dalla parola “mama” composta con le letterine colorate durante l’infanzia malcantone­se, al racconto autobiogra­fico in cui rivela la difficile convivenza con la madre e il patrigno; un testo che vincerà un premio letterario, ma che scatenerà le ire di una famiglia che si sente tradita. È l’abbozzo del romanzo (la cui stesura è suggerita da una delle zie, personaggi­o dal forte ruolo materno), proprio quello di cui, con gioco autorefere­nziale, stiamo ora parlando e che permetterà di risolvere il blocco comunicati­vo vissuto dal protagonis­ta e i non detti accumulati­si lungo la narrazione. Un romanzo costituito da brevi frammenti, a mimare il difficile tentativo di ricomporre un’identità lacerata, disposti in un ordine studiatiss­imo e tra i quali si nasconde pure l’intenso significat­o del titolo. Prima del toccante finale, nel quale torna, con l’Elvezia, quel dialetto ticinese che aveva caratteriz­zato il tessuto linguistic­o della prima parte del libro ed era stato progressiv­amente abbandonat­o con lo scorrere delle pagine.

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La copertina del libro, edito da Capelli

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