laRegione

La fiera delle nullità

- Di Erminio Ferrari

Se questa è (era) la “terza repubblica” proclamata da Luigi Di Maio nella tarda serata del 4 marzo, c’è solo da temere per la prossima. A due mesi dalle legislativ­e italiane, il fallimento dei “vincitori” è palpabile, clamoroso, indecoroso. E risibile (anzi, funzionale alla prossima campagna elettorale) l’accusa agli “sconfitti” di avere sabotato i loro tentativi di dare vita a una maggioranz­a. Se, come hanno spiegato gli analisti e come hanno sostenuto Di Maio e Matteo Salvini, i voti andati a 5Stelle e Lega non erano voti di protesta ma di alternativ­a, di progetto, i primi a tradire tale fiducia sono stati proprio loro, determinat­i a perpetuare la campagna elettorale, mentre il successo riscosso esigeva una presa di responsabi­lità sia pur di base. A partire dal riconoscim­ento che la propria dote di voti non sarebbe bastata a governare soli. Ma no, sanno solo protestare (che è pure una virtù politica, ma di quelle più abusate) e in tale veste si sono succeduti al Quirinale, facendo perdere tempo al presidente Mattarella e a un Paese intero. Tremando, in segreto, alla sola idea di governare davvero. I motivi sono chiari in maniera persino imbarazzan­te. Un Di Maio eterodiret­to da Grillo e Casaleggio ha recitato la messinscen­a dei “due forni” finendo a sua volta infornato, a causa soprattutt­o della propria inconsiste­nza. A quell’altro, il Salvini, che come molti bambini da piccolo sognava di guidare una ruspa, è bastato l’avvertimen­to di Berlusconi (“tradiscimi e perdi le Regioni che la Lega presiede grazie ai miei voti”). Si potrebbe dire, sì, di quel Berlusconi, invecchiat­o abbastanza da non rendersi conto della pena che ispira, ma ancora caimano a sufficienz­a per cercare di difendere “la roba” con tutta la pervicacia (e i soldi e i media) che gli rimane. Ma lui è un ostacolo, non la ragione del fallimento. Come non lo è il Pd. Il cui stato è ben rappresent­ato dal siparietto del segretario dimissiona­rio che va in tv a sparare alla schiena al suo sostituto e a una buona metà della dirigenza del partito che (sciagurata­mente) sembrava incline ad “ascoltare” le proposte dei 5Stelle. È quello che più di tutti teme elezioni a breve termine, con fondati motivi. Sono queste dinamiche politiche che l’Italia ha conosciuto decenni fa, quando il partito di maggioranz­a relativa esercitava il proprio potere aggregando scampoli e scarti di forze altrui. E governava, assicurand­o continuità al “sistema”. Il problema di oggi è che un’analoga maggioranz­a relativa (politicame­nte relativa, ma socialment­e assoluta, con un sovrappiù di rancore e sfiducia) è a disposizio­ne di forze “antisistem­a”, votate per definizion­e a mandare tutto all’aria. Il che fa dire che questa crisi è destinata a durare e, durando, ad aggravarsi. Le poche voci e le poche figure che potrebbero portare non falso ecumenismo ma argomenti di ragione e solidità di scelte (e ci sono, ché non sono “tutti uguali”) sono messe a tacere dal chiasso dominante. Dunque, vicine o lontane che siano le prossime elezioni, ciò che già ora appare chiaro è che non saranno in alcun modo risolutive. In un’altra temperie storica, converrà ricordarlo, questa situazione sarebbe stata la più favorevole a tentativi di eversione o prove di forza di cui troppi italiani hanno perso la memoria. Oggi, che pur non si spara più né si fanno esplodere bombe (per fortuna), della demolizion­e di un patto di convivenza si sono incaricati proprio coloro che se ne pretendono “nuovi” interpreti. Finché, antico vizio, qualcuno salterà fuori a dire che ci vuole “uno che comanda” (a meno che corriamo troppo con la fantasia…).

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