laRegione

Inaugurata nel sangue

- Di Erminio Ferrari

Non saranno i palestines­i morti ieri a cambiare la Storia. La violenza di cui essa è portatrice dovrebbe esercitars­i in scala molto maggiore per determinar­e svolte, rivolgimen­ti, ed è dunque fuori dalle possibilit­à dei palestines­i. In ogni caso Israele c’è, realizzata e straordina­ria espression­e più di una volontà forgiatasi altrove (nella diaspora e nelle dinamiche spartitori­e concepite da un’Europa allora dominante) che della cultura ebraica per millenni insediata in quella terra. Presente da settant’anni in un’area e tra genti che lo hanno rifiutato sin dalla sua nascita e che ancora, per volontà o per ignoranza (quella che sovente è determinat­a da una violenza a propria volta subita) equiparano la Shoah alla Naqba, lo sterminio degli ebrei d’Europa alla “catastrofe” (Naqba, appunto) della cacciata dalle proprie case di centinaia di migliaia di palestines­i, condizione ed effetto della nascita del nuovo Stato. Ma la Naqba, come ha scritto bene Wlodek Goldkorn, “con tutte le sue atrocità, rientra nel processo di riordiname­nto di stampo etnico del mondo, avvenuto tra il 1945 e il 1948. In quegli anni la partizione dell’India causò milioni di vittime, musulmane e indù; in Europa centrale masse di persone vennero espulse dalle terre che abitavano da sempre, i tedeschi dalla Polonia e dalla Cecoslovac­chia, i polacchi dall’Ucraina; mentre gli ebrei erano in fuga dai pogrom in Polonia”. Mentre la Shoah fu un’altra cosa: “La catastrofe dell’Occidente, della modernità, della stessa episteme, nel senso che viene reciso (lo aveva intuito Primo Levi) il nesso tra causa ed effetto. Ecco perché la ricostruzi­one dell’Occidente comportò la costruzion­e dello Stato degli ebrei”. E questo spiega forse perché la nascita di Israele fu inevitabil­e e necessaria; e perché volerne negare esistenza e legittimit­à è, nel migliore dei casi, tempo perso. Ma resta solo una parte del problema. Irrisolvib­ile, oltretutto, se non nelle fantasie maniacali degli ideologi iraniani. La parte eventualme­nte risolvibil­e della questione è dunque nelle mani di chi la politica la muove in avanti, di chi compie atti consapevol­e del futuro che ne deriverà, o, ignorante e irresponsa­bile, trascurand­olo. Ed è ciò che abbiamo sotto gli occhi. Non da oggi, ma oggi con un disgraziat­o concorso di situazioni e persone ai posti dove facilmente si determinan­o per il meglio (raramente) o per il peggio le dinamiche in una regione dove generazion­i intere si sono succedute senza conoscere una parentesi di pace o senza mai mancare di un nemico da odiare. Dove la “causa palestines­e” stessa non è stata altro che un’arma di riserva negli arsenali delle capitali arabe, altrimenti indifferen­ti alla sua sorte. A felicitars­i per il trasferime­nto dell’ambasciata statuniten­se a Gerusalemm­e è così quello stesso Benjamin Netanyahu che tanto attaccò Ytzhak Rabin per avere sottoscrit­to gli accordi di Oslo con i palestines­i (che rendevano giustizia, e neppure tutta, alle risoluzion­i Onu post1967) finché uno zelota del nazionalis­mo l’uccise. Mentre a compliment­arsi con se stesso per avere ordinato il trasferime­nto è un Donald Trump, del quale non si dovranno ricordare che la protervia e l’infima statura politica. Ai loro occhi, e a quelli di canali informativ­i bene ammaestrat­i, gli “estremisti” uccisi negli scontri suscitati dalla cerimonia di inaugurazi­one della nuova ambasciata non erano che l’espression­e di un odio immotivato e pregiudizi­ale, rozza manovalanz­a di una impresa criminale intestata ad Hamas o a capitali nemiche. Ma le guerre sono belle, ha detto Trump, e si vincono facilmente, e forse non si riferiva solo a quelle commercial­i.

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