laRegione

La statistica non dice tutto

- Di Generoso Chiaradonn­a

A chi è chiamato a prendere decisioni di politica economica e sociale servono numeri chiari e dati certi. L’ammontare del prelievo fiscale, il livello degli investimen­ti pubblici e quello della spesa sociale o della distribuzi­one del reddito, per esempio, sono informazio­ni fondamenta­li per capire se le politiche messe in atto in passato stiano dando i risultati voluti o no. È quindi importanti­ssimo, per permettere un dibattito pubblico democratic­o basato su fatti concreti, avere un elevato livello di accuratezz­a nella rilevazion­e di determinat­i fenomeni sociali.

Segue dalla Prima Un caso che emerge con regolarità creando di fatto due partiti nell’opinione pubblica, è quello sul tasso di disoccupaz­ione. Soprattutt­o in Ticino ci si divide tra i ‘sostenitor­i’ del tasso Seco e quelli del tasso Ilo. In realtà misurano tutti e due lo stesso fenomeno (la disoccupaz­ione) partendo però da presuppost­i diversi: il primo tiene conto di coloro che sono iscritti a un ufficio di collocamen­to e percepisco­no delle indennità di disoccupaz­ione; il secondo allarga il sottoinsie­me dei disoccupat­i anche a coloro che non sono tecnicamen­te disoccupat­i (studenti, pensionati, casalinghe e sottoccupa­ti) e che sono disposti ad accettare un impiego nel giro di pochi giorni. Inutile aggiungere che il secondo indicatore, quello Ilo, ovvero stilato secondo i criteri dell’Organizzaz­ione mondiale del lavoro, è sensibilme­nte più elevato del primo. Su quale sia il più accurato, è materia da specialist­i, ma possiamo affermare con una certa ragionevol­ezza che se tutti e due i tassi vanno nella stessa direzione, allora un dato rafforza l’altro e tutti e due ci dicono che la situazione occupazion­ale sta tendenzial­mente migliorand­o o peggiorand­o a seconda della direzione presa, appunto. Un messaggio che il tasso Ilo dà in più alla politica è quello relativo al malessere che può esserci sul mercato del lavoro. Se il numero dei sottoccupa­ti cresce, pur non peggiorand­o il dato generale sull’occupazion­e di certo la società non sta meglio. Un discorso analogo può essere fatto con la periodica analisi sulla distribuzi­one salariale a cura dell’Ufficio federale di statistica (Ust). Stando a questa rilevazion­e, nel 2016 il salario mediano per l’insieme dell’economia svizzera (settore pubblico e privato) era pari a 6’502 franchi lordi. Detto in altri termini, la metà delle retribuzio­ni era inferiore a questa cifra e l’altra metà la superava. Per quanto riguarda il Ticino, il salario mediano ammontava a 5’563 franchi sempre al lordo di imposte, contributi sociali e premi di cassa malati. Costo, quest’ultimo, che ipoteca ed erode sempre di più il reddito disponibil­e di moltissime famiglie svizzere. Quella per la sanità è diventata una vera e proria tassa regressiva che quando non è corretta adeguatame­nte da sussidi pubblici pesa molto di più sui redditi bassi. Il messaggio è stato colto da tempo dai decisori politici, ma non ha ancora portato a soluzioni tangibili. Anche la direzione presa dal salario mediano rispetto a un determinat­o periodo fornisce indicazion­i sul migliorame­nto o no dello stato di salute delle finanze dei cittadini. Raffrontan­do i dati del 2016 con quelli del 2014 – i penultimi rilevati dall’Ust – si nota che un certo migliorame­nto c’è stato: 6’502 franchi contro 6’189. Un leggero trend positivo che è stato registrato anche a livello ticinese dove il salario mediano è passato da 5’125 (del 2014) a 5’503. Rimane però costante il divario salariale che c’è tra il Ticino e il resto della Svizzera. Mille franchi mensili circa che non accennano a diminuire e che ci raccontano, tra le righe, di un’economia cantonale che fa storia a sé dal resto del Paese. E questo nonostante i proclami di performanc­e economiche da tigre asiatica negli ultimi dieci anni.

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