Un martellante ‘no comment’ da parte degli accusati
Un susseguirsi di ‘no comment’. Questa la strategia difensiva dei tre dirigenti del Consiglio centrale islamico svizzero (Ccis) a processo da ieri al Tribunale penale federale (Tpf) di Bellinzona e accusati di aver fatto propaganda a favore di al Qaida con due video pubblicati in internet. In pratica Nicolas Blancho, Qaasim Illi e Naim Cherni hanno detto una sola cosa alla Corte: che «vista la natura politica del procedimento avviato dalla Procura federale», non avrebbero risposto ad alcuna domanda. E così è stato. Blancho, Illi e Cherni hanno regolarmente rimandato a un rapporto, allegato agli atti, redatto in aprile dal Ccis e nel quale si troverebbero «tutte, o per lo meno la maggior parte, delle risposte».
Con i media, invece, i tre sono spesso e volentieri disposti a parlare. Presentandosi in sala stampa, Illi ha spiegato ai giornalisti che avrebbe voluto rispondere a molte domande, ma che la strategia difensiva è stata impostata diversamente, sul silenzio. In mattinata si è così assistito a un martellante «Kein Kommentar» (‘nessun commento’) in risposta a qualsiasi sollecitazione giunta dalla giudice Miriam Forni e dalla procuratrice federale Juliette Noto.
Non molto più loquace, ma per tutt’altre ragioni, il giornalista del settimanale ‘Wochenzeitung’ Daniel Ryser. Nell’agosto del 2016 ha pubblicato un lungo (e premiato) reportage su Illi, che ha incontrato di persona. La Corte per questo lo ha citato come testimone. Ryser ha dichiarato di non capire esattamente perché sia stato chiamato a presentarsi in tale veste. In una posizione incomoda, si è limitato a fare riferimento al suo lungo articolo, affermando che tutto quello che ha scritto su Illi lo sottoscrive e lo può provare.
Molte parole le ha spese invece la procuratrice federale. Juliette Noto dapprima s’è voluta soffermare sulle ripetute insinuazioni dei tre imputati. Ha negato che dietro il processo e l’apertura di un procedimento penale vi sia una motivazione politica: affermarlo è «insensato». Qui, ha aggiunto, non si tratta di islamofobia o di discriminazione: ci si chiede semplicemente se gli imputati sono colpevoli dei reati di cui sono accusati. Punto.