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GdP, inchiostro aglisgocci­oli

L’editore, il vescovo Lazzeri, ha inoltrato l’istanza di fallimento. ‘Non ho avuto altra scelta’. Restano a casa una trentina di dipendenti, a cui è stato garantito il salario di maggio ma non il piano sociale. ‘Per riuscire a proporlo avremmo dovuto depo

- Di Chiara Scapozza

Il punto che conclude una storia lunga 92 anni lo ha messo ieri l’editore. Depositand­o i bilanci in pretura a Lugano e interrompe­ndo la pubblicazi­one del ‘Giornale del Popolo’. Oggi il giornale è in edicola, potrebbe essere l’ultimo numero. «Non ho avuto altra scelta», dice il vescovo Valerio Lazzeri quando gli chiediamo i motivi che lo hanno portato a procedere con l’istanza di fallimento. Ieri mattina la comunicazi­one alla direzione, poi ai dipendenti. Una trentina. Nessuno di loro si attendeva una fine così repentina: “Siamo tutti scioccati”. Queste le parole ai microfoni della ‘Rsi’ della direttrice Alessandra Zumthor, che nonostante fosse a conoscenza delle difficoltà finanziari­e conseguent­i al fallimento di Publicitas – la società a cui il GdP da gennaio si era affidato per la raccolta della pubblicità – pensava di poter provare a battere altre piste per coprire il buco, un po’ come già successo in passato. Buco quantifica­to da Zumthor in 400mila franchi, mentre l’editore preferisce non dare cifre, lasciando intendere che in gioco ci siano importi più importanti.

Vescovo Lazzeri, come commenta la situazione che si è venuta a creare?

È una realtà che ci addolora profondame­nte, soprattutt­o pensando a coloro che non potranno più lavorare e ai lettori che non avranno più il giornale tra le loro mani in futuro. È chiarament­e un momento difficilis­simo per tutti. Ma d’altra parte mi sono trovato dopo il fallimento di Publicitas in una situazione che non mi permetteva altra scelta: l’agenzia aveva promesso di garantire quasi la metà del budget del giornale. Il suo fallimento ci ha lasciati senza la necessaria liquidità per portare avanti un lavoro che giornalmen­te richiede una disponibil­ità molto importante di fondi. Ho dovuto scegliere: fare andare avanti il lavoro nell’impossibil­ità di dare lo stipendio il mese prossimo oppure chiudere adesso e fare in modo che dal mese prossimo per i lavoratori possano subentrare altre tutele.

Ha scelto la seconda opzione, garantendo lo stipendio di maggio. Non c’erano davvero altre possibilit­à per prolungare l’avventura?

Chiusa la collaboraz­ione col CdT abbiamo fatto un tentativo estremo, decidendo di proseguire in modo autonomo. È chiaro che si può sempre trovare uno spiraglio per dire che non si è provato proprio tutto... Però non vorrei massacrare ulteriorme­nte la capacità di sostenere situazioni che non hanno fondamento. Anche se ci fosse un’importante immissione di capitale tireremmo avanti qualche mese, ma poi ci troveremmo nella stessa situazione. Il problema è quello di un cambiament­o di epoca, che rende il giornale cartaceo un prodotto delicato e difficilme­nte sostenibil­e.

Col senno di poi è tutto più facile, ma la strategia di camminare da soli non sembra essere stata quella giusta...

Bisogna tenere presente che il CdT era un partner importante del GdP, che ha permesso al giornale di andare avanti per diversi anni. Ma si trattava di un contratto, non di una presa a carico da parte del CdT con la garanzia di correggere qualsiasi situazione di difficoltà... Ciò significa che eravamo nel contratto con degli impegni, delle condizioni, che dovevamo poi essere in grado di onerare. A un dato punto ci siamo chiesti se eravamo ancora in grado di stipulare un nuovo contratto. Sono tutte valutazion­i che hanno dei pro e dei contro. In quel momento ci è sembrato che era possibile andare avanti senza condiziona­rci troppo per il futuro, abbiamo tentato e purtroppo non è andata bene.

È stato espresso stupore da parte di collaborat­ori e direzione, quest’ultima impegnata a coprire il buco...

Le cifre io non voglio e non posso commentarl­e, visto che c’è un’istanza presentata al pretore. È chiaro però che se abbiamo deciso questo passo è perché una soluzione facile non c’era: del resto quante volte la Diocesi ha immesso capitali ben più consistent­i di 400mila franchi per salvare il giornale. Se ci fosse stata questa possibilit­à, l’avremmo percorsa... È evidente che al di là di salvare momentanea­mente una situazione, a un certo punto bisogna arrivare a dire “non ce la facciamo più”.

Un piano sociale non è previsto. Per i dipendenti cosa si prefigura?

La situazione per loro è quella di una società che ha intrapreso una procedura di fallimento. Sono evidenteme­nte i primi creditori che possono vantare diritti e lo faranno nelle forme che sono a loro concesse. Per il momento, non possiamo dire altro, almeno finché il pretore non si sarà espresso. Evidenteme­nte se non abbiamo fatto il piano sociale è perché ci siamo trovati nella condizione di non poterlo offrire. Un piano sociale per trenta collaborat­ori vuol dire mettere la Diocesi in ginocchio: un debito enorme che avrebbe condotto la Curia a portare i libri in pretura...

Avete valutato la possibilit­à di uscire con un settimanal­e?

Certo. Ma un settimanal­e non impiega più di quattro o cinque persone, quindi il disagio sarebbe stato ridotto di poco per i collaborat­ori. Gli investimen­ti inoltre non sono meno gravosi, senza peraltro alcuna garanzia di sostenibil­ità di una simile impresa. È chiaro che in futuro dovremo trovare il modo di continuare a esprimere la voce della Chiesa cattolica in altri modi. Finora lo abbiamo fatto col giornale, in prospettiv­a dovremo pensare e considerar­e quali altre possibilit­à ci offre la situazione attuale.

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