Gdp, conflittualità tra etica e mercato
La drammatica vicenda GdP è un esempio di conflittualità e insanabilità tra etica (e aggiungerei anche democrazia) e mercato. Lo si è percepito nelle sincere dichiarazioni del vescovo, stretto tra l’idealità e la presenza cattolica e una brutale realtà di mercato, che è fatta di soldi e non ha lasciato scampo, pena un altro fallimento, quello della diocesi. Facile scandalizzarsi per il cedimento, per pretesi errori, o per l’incoerenza e il venir meno della carità cristiana, come si è sentito. Lo si è avvertito nelle parole della direttrice del giornale, Zumthor, con ammirevole senso etico e giornalistico.
Segue dalla Prima L’uno e l’altro, volendo lottare contro una programmata fagocitazione del proprio giornale – ricercata con il pretesto di quelle economie di scala con cui si combinano le acquisizioni-fusioni, che finiscono però sempre per cancellare la parte strutturalmente più debole – si sono imposte a un certo momento come scelta di dignità e di indipendenza. Ma anche come rischio da assumersi contro il mercato, a favore della propria storia, della propria idealità, della pluralità, della democrazia. Valori che al mercato non interessano. Facile dire, ma forse anche indegno obiettare, che il rischio era troppo grosso e non era da assumere, ch’era meglio essere vivi nella bocca del mercato, come nella balena per Giona, che rinnegati dal dio-mercato. Meno facile ammettere che la diocesi si è da lungo tempo dissanguata per sostenere il suo giornale, mentre i cattolici, potenziali sostenitori, hanno probabilmente disertato attratti da altre liturgie.
Fragilità non di oggi
Contrariamente a quanto si pensa o si dice o si scrive (anche dallo storico del giornalismo ticinese) la fragilità del GdP non è di oggi e neppure ha inizio l’altro ieri, con la morte del primo direttore, mons. Leber, e la mia successione. Una crisi è ammessa già negli anni Sessanta da mons. Leber (vedi intervista passata giovedì sera dal ‘Quotidiano’). Nei tempi leberiani tre fattori hanno però sempre evitato il peggio. Dapprima, una sorta di extra-contabilità del giornale, data dalla generosità del nipote ing. Ugo Guzzi (con studio a Zurigo) che ha colmato varie volte i buchi improvvisi; poi i fondi “segreti” che permettevano manovre di compenso immediate (tipo il fondo di Santa Rita di Cascia, cospicuo, continuamente alimentato dalle collette del giornale, depositato in una banca luganese, con cui si rifornivano di quando in quando le suore di quel convento cortonese). Riportare la sincerità contabile, dopo la morte di monsignore, con gli inevitabili riaggiustamenti finanziari a livello redazionale e logistico, portò fatalmente all’emergere di un debito maggiore, sanato dalla diocesi con ipoteche varie. Secondo, ma non meno importante, l’alta qualità raggiunta a un certo momento dal giornale, per quanto offriva, per le sue prese di posizione anche polemiche (“il giornale che prende posizione”, era il motto di don Leber), per la fucina di ottimi redattori che aveva e formava (e quanti ne ha fornito alla Radio e alla giovane Televisione senza averne riscontro!): tanto da diventare in un certo periodo superiore al più danaroso CdT. Terzo, per alcuni fattori innovativi importanti; si potrebbe ricordare una nuova rotativa d’avanguardia che ha reso il quotidiano più concorrenziale rispetto agli altri cinque, soprattutto per la spedizione notturna oltre San Gottardo (rotativa pure finanziata dal nipote Guzzi); l’introduzione delle pagine sul calcio minore (iniziativa di Aristide Cavaliere, personaggio spesso dimenticato, ma che ha avuto iniziative, anche pubblicitarie, spesso salvifiche per il giornale).
I finanziamenti ‘à côté’
Si potrebbe aggiungere che i finanziamenti “à côté” dei giornali (a prescindere forse dal CdT, una fondazione familiare) sono stati una caratteristica fondamentale e vitale della stampa ticinese che poté nutrire sino a sei quotidiani. I giornali partitici non erano forse foraggiati dai fondi segreti dei partiti o non avevano la fortuna dei direttori (alle volte anche dei redattori) ch’erano pure in parte stipendiati dalle presenze parlamentari o di commissioni? Ne hanno permesso a lungo la sopravvivenza. Ricavare qualcosa dalla vicenda GdP e da questa storia per riportarci con utilità alla situazione attuale è assai difficile. È vero che due fattori rimangono pri- mordiali: la qualità (che implica eticità e credibilità, che non hanno le reti web per mancanza di filtri), l’innovazione (che richiama da un lato la tecnologia, ma impone anche una differenziazione di contenuti rispetto a internet e reti sociali). Il terzo fattore, quello finanziario, ancorato soprattutto alla pubblicità, intrappolato o condannato dai giochi di mercato, rimane quello più problematico perché porta quasi fatalmente alla fagocitazione delle testate minori, alle fusioni e concentrazioni, alla predominanza dei grandi gruppi, alla demolizione della pluralità, allo svilimento della democrazia. Si è sentita ancora una volta suggerire la via dell’intervento finanziario pubblico. Temendo però l’ingerenza statale e la perdita di autonomia: chi paga, pretende, insomma. Perché dovrebbe essere peggiore lo Stato, democraticamente controllabile e censurabile, di un gruppo economico privato che si inghiotte via via la stampa libera esistente, imponendo sicuramente le sue direttive?
Una possibile via d’uscita
Forse una via d’uscita ci potrebbe essere. In Europa avanza l’idea di tassare con una percentuale minima (3-6 per cento) la cifra d’affari realizzata in loco dagli ormai famosi Gafa (Google, Apple, Facebook, Amazon), i padroni americani del web che sembrano gratuiti, ma in realtà ci fanno lavorare e prosciugano ampiamente la pubblicità realizzando profitti mostruosi. Che Trump vuole ora rimpatriare, senza merito. In Svizzera si è guardinghi, temendo la solita fuga (ma perché dovrebbero fuggire?). Con un’imposizione minima e anche giusta sulla cifra d’affari che questi Gafa realizzano in Svizzera si potrebbe costituire un fondo d’aiuto alla stampa in difficoltà, senza ricorrere a fondi statali, rendendo un servizio pubblico alla libertà e alla democrazia e praticando nel contempo giustizia fiscale. Unica condizione, come avviene in Francia con l’aiuto pubblico (si è citato “Le monde”), pubblicazione obbligatoria dei bilanci dei giornali. Se si accetta che parte del canone “pubblico” radiotelevisivo venga versato alle radiotelevisioni private, perché non si potrebbe operare alla stessa stregua con questo fondo pubblicitario?