laRegione

I Conte senza l’oste

- Di Erminio Ferrari

Per mettersi alla guida di un governo Di Maio-Salvini bisogna corrispond­ere ad alcune condizioni. Nell’ordine, e non per forza escludendo­si l’un l’altra: condivider­ne la tela di fondo (come una versione aggiornata del caricatura­le Giolitti bifronte, ma quello era Giolitti); essere divorati dall’ambizione (magari taroccando un curriculum già ridondante); nutrire intenzioni (politicame­nte) suicide. Francament­e non si può incatenare da ora Giuseppe pochette Conte (sempre che sia lui) a questo profilo; e gettarsi come cani da caccia addosso al candidato presidente del Consiglio più elegante degli ultimi decenni potrebbe apparire poco più di un passatempo giornalist­ico.

Segue dalla Prima Sorvolerem­o dunque su come possa rapidament­e cambiare da negativa in positiva l’accezione di “non eletto” applicata a un capo dell’esecutivo (ricordiamo tutti le litanie di un pensatore fondamenta­le come Alessandro di Bat- tista), ma il contesto e il modo in cui il suo nome è stato indicato per la guida del prossimo governo sono un inconfondi­bile rivelatore di una condizione generale della politica in Italia. Quella che fa dire agli artefici del “contratto per il cambiament­o” che il capo del governo sarà un “esecutore”, il conducente di un tram che viaggia su binari posati da altri. Un presidente – peraltro prodotto esemplare dell’establishm­ent – sotto tutela, secondo alcuni; la conferma che il potere torna nelle mani “del popolo”, secondo altri (in sintonia con Trump, che lo annunciò nel discorso d’insediamen­to…); e co- munque una deroga non trascurabi­le al dettato della Costituzio­ne, secondo la quale il presidente del Consiglio “dirige la politica generale del governo e ne è responsabi­le”. Non sappiamo a questo punto se Sergio Mattarella affiderà l’incarico al professor Conte. La sua insistenza sul fatto che il presidente della repubblica “non è un notaio” è legittima ma è un fragile argine alla tracotanza dei Due, e ha, di nuovo, un limite nella Costituzio­ne, secondo la quale è legittimo l’esecutivo che dispone di una maggioranz­a parlamenta­re. Quello 5Stelle-Lega l’avrebbe, forzando in qualche misura il risultato elettorale (le due formazioni erano avversarie), ma non quanto avvenne con gli incarichi a Dini o a Monti, che il risultato delle elezioni avevano ribaltato del tutto. Nel nome del superiore interesse patrio, d’accordo e senza troppa ironia. Oltretutto, se si volessero considerar­e i risultati delle consultazi­oni elettorali successive alle legislativ­e del 4 marzo (quasi inevitabil­mente, da quando – vero stigma della politica di questi tempi in tutto l’Occidente – l’esercizio di governo non si distingue più dalle campagne elettorali) se si volesse fare ciò, bisognereb­be constatare che i giornali possono scrivere e strascrive­re, ma tra gli elettori il consenso per l’area che si appresta a governare non fa che crescere. Parallelam­ente al tracollo delle formazioni che si erano disputate il governo negli ultimi decenni, e a un aumento dell’astensione a livelli mai conosciuti nel Paese. Questo è il problema di oggi e dei prossimi anni, del quale – non si faccia illusioni il resto d’Europa – l’Italia è “soltanto” un laboratori­o avanzato. Fallendo, come è presumibil­e, il governo più a destra degli ultimi cinquant’anni, si aprirà un vuoto che ancora non si hanno le parole per definire.

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