Narratore d’America
Si è spento ieri Philip Roth, fra i grandi scrittori del secondo Novecento Voce critica e provocatoria, Roth era uno degli ultimi depositari di un antico e nobile potere, quello della cultura. Capace di fare opinione o, almeno, di far discutere di sé. E,
Ci si potrebbe chiedere, come qualcuno continuerà a fare, com’è possibile che il Nobel per la letteratura lo abbia ricevuto Bob Dylan e non Philip Roth. Ci si potrebbe chiedere per quale motivo avesse bisogno di un agente noto come “lo sciacallo”, ma questo ci porterebbe a perderci fra le logiche oscure che determinano l’odierna industria culturale. Si potrebbe dibattere anche sul valore di alcune pagine di Roth – ulteriore coerente tassello nel grande mosaico vivente della sua narrativa, oppure semplice pornografia sdoganata come letteratura? – ma l’esercizio si è fatto sterile, quale che sia la posizione da difendere.
Ci si potrebbe chiedere, come qualcuno continuerà a fare, com’è possibile che il Nobel per la letteratura lo abbia ricevuto Bob Dylan e non Philip Roth. Ma questo porta inevitabilmente a smarrire il sentiero fra i luoghi comuni e i vicoli ciechi che segnano il dibattito su ciò che è e ciò che non è Cultura, e che a volte possono confondere anche i membri delle Accademie. Ci si potrebbe chiedere per quale motivo uno scrittore come Roth avesse bisogno di un agente noto come “lo sciacallo”, ma questo ci porterebbe a perderci fra le logiche oscure che determinano l’odierna industria culturale. Si potrebbe dibattere anche sul valore di alcune celebri pagine di Roth – ulteriore coerente tassello nel grande mosaico vivente della sua narrativa, oppure semplice pornografia sdoganata come letteratura? – ma l’esercizio si è fatto sterile, quale che sia la posizione da difendere.
Di successo e di qualità
Piuttosto, nella parabola letteraria di Roth – l’ebreo di Newark accusato di “antisemitismo”, il libertino innamorato delle donne bollato come “misogino”, il narratore del Novecento americano in cui molti hanno visto un nemico della nazione, l’uomo che ha sacrificato tutto alla scrittura declassato a provocatore seriale, se non ad autore commerciale – si può scorgere la magnifica realizzazione del sogno di ogni editore rispettabile e la migliore negazione del luogo comune più stantio: la letteratura di successo è necessariamente mediocre, la grande letteratura parla a pochi. Philip Roth – pur non avendo forse venduto come uno Stephen King, pur non avendo ricevuto il Nobel – è uno dei pochi ad aver dimostrato il contrario. Nato nel 1933 nel New Jersey, morto ieri a New York, Roth ha vinto due volte il National Book Award e tre il Pen-Faulkner Award, è stato insignito alla Casa Bianca della National Medal of Arts e ha ricevuto la Gold Medal per la narrativa.
E ha vinto il premio Pulizer per ‘Pastorale americana’, in cui è tornato una volta di più alle sue origini per raccontare una pagina di storia americana, fra gli anni 40 e gli anni 90. È fra quelle pagine, al culmine della tragedia che lo ha investito, che lo Svedese, narrato da Nathan Zuckerman (sorta di alter ego di Roth), impara “la lezione peggiore che la vita possa insegnare: che non c’è un senso”. Infatti, è proprio quando l’ebreo biondo di Newark – il figlio della piccola borghesia onesta e laboriosa, colui che ha rinunciato a una possibile grande carriera da giocatore di baseball per rilevare l’azienda di guanti fondata da suo padre – sembra aver compiuto la sua “pastorale” da perfetto americano nella bucolica campagna del New Jersey, che una verità lo coglie: “La gente pensa che la storia abbia il respiro lungo, ma la storia, in realtà, ti si para davanti all’improvviso”. La Storia arriva e non c’è più un senso decifrabile a regolarla.
Il potere del romanzo
Ci si potrebbe chiedere se Roth ci creda davvero, ma non è detto che si arrivi a una risposta certa. In una recente intervista concessa a ‘la Lettura’ (il 3 settembre 2017) ha detto di aver scoperto con il tempo “che il potere del romanzo risiede nella ricchezza delle diverse parti che lo compongono”. Ma non è detto che queste parti, e il romanzo nelle sue “dimensioni più profonde”, dicano la stessa cosa, o almeno che la dicano in modo lineare e univoco. Così, mentre con lo Svedese, privato della famiglia e di ogni certezza, sprofondiamo nel suo abisso sullo sfondo del Watergate, ci ricordiamo di aver già intravisto la sua vita negli anni a venire, quando ha formato una nuova “famiglia modello”. Dov’è la menzogna, se ce n’è una? In quell’intervista, dalla sua vecchia casa fra gli orsi del Connecticut, Roth diceva che “qualunque cosa offuschi la mente di un romanziere è sua nemica». Eppure, con il passare degli anni, con la maturazione del talento e la maggiore consapevolezza, si è reso conto che, a proposito dello scrivere, “più cose sapevo, più difficile diventava”. In un articolo dello scorso 22 ottobre, sul ‘Corriere della Sera’ Emanuele Trevi scriveva che la grande letteratura del Novecento, quella di Roth, è “un omaggio alla voce umana: alla sua capacità di persuasione e mistificazione, al suo carattere demiurgico, alla sua doppia natura corporale e spirituale”. È in questa apparente contraddizione, persuadendo e mistificando, che Roth ha nutrito il suo calei- doscopio di lancinanti riflessi letterari, fra ironia e sgomento, lirismo malinconico e brutale realismo, compassione e dissacrazione. È lungo questa via, mai facile né compiacente con i valori dati per acquisiti, che ha raccontato il suo Paese, dal suo personale osservatorio di figlio dell’immigrazione ebraica e del grande sogno americano sporcato dalla Storia. Nel 2012, dopo 31 libri, come ricordato dall’Ansa aveva detto: “Ho dedicato tutta la mia vita a scrivere sacrificando tutto il resto. Ora basta. L’idea di cercare di scrivere di nuovo è impossibile”. Ad ottobre uscirà anche in italiano il suo ultimo libro, ‘Perché scrivere? Saggi 19602013’. La domanda è rimasta valida fino all’ultimo, anche se Roth non è arrivato a una risposta certa: “Il meglio che posso dire è che ho scritto perché volevo vedere se ne ero capace”.