Biennale, l’immaginazione non ha genere
Due professoresse dell’Accademia alla direzione della Biennale architettura
“Siamo architetti, non curatrici”. In rigoroso bianco e nero, le dublinesi Yvonne Farrel e Shelley McNamara, professoresse ordinarie di Progettazione all’Accademia di architettura di Mendrisio, esordiscono così davanti alla stampa mondiale che, alla vigilia della Biennale architettura da loro diretta, le sottopone a un fuoco di fila di domande sul loro lavoro. Unite e solidali rivendicano un ruolo “del fare” nel mondo dell’architettura, una prospettiva da artigiane abituate a confrontarsi con i problemi reali del territorio e della committenza. Ed è da questa prospettiva che hanno immaginato la mostra anticipata da un manifesto e dedicata al Freespace, lo spazio libero che deve essere di tutti, e anche interpretare, dicono, le esigenze di tutti. Un rigore che si conferma quando qualcuno torna sul tema donne e architettura e chiede se è stata una scelta la presenza di tante donne fra i 71 progettisti invitati. “Semplicemente abbiamo selezionato i migliori”, risponde secca McNamara. “L’immaginazione non è questione di genere”, le fa eco Farrell. Certo il tema della discriminazione esiste, ammettono, “ma nella nostra esperienza non c’è stata, mai incontrato ostacoli”. Piuttosto, da architetti abituati a confrontarsi con la crisi economica, preferiscono sottolineare che “c’è un problema più generale di accesso alla professione. Un problema vivo e reale che tocca tutti, riguarda i giovani e non risparmia gli anziani”. Niente depressione però, “l’architettura è una disciplina difficile, ma di grande ottimismo”. Ed è così che raccontano il bakstage di questa Biennale 2018, preceduta da “tanto lavoro di ricerca, discussioni con i colleghi, consigli di amici stimati”, fino alla scelta, rigorosamente legata alla loro impostazione di fondo: “Fare una mostra che parlasse a tutti, anche ai non architetti, perché l’architettura è veramente una cosa che tocca la vita di tutti”. Per questo deve ascoltare, “essere generosa” ripetono, “interpretare i desideri non espressi dagli individui”, “creare un desiderio di architettura”. Altro tema centrale, la responsabilità nei confronti del mondo, della natura, del presente e del futuro, “la società diventa grande se tutti piantiamo degli alberi anche sapendo che non arriveremo personalmente a godere della loro ombra”. Il parallelo con il mondo rurale ritorna più volte: “Oggi ci sentiamo come contadini al tempo del raccolto”, sorridono. L’idea è stata quella di riunire “molte culture diverse sotto lo stesso tetto”, raccontano. E di partire dalla scoperta degli spazi offerti dalla Biennale, “edifici che nella nostra mostra sono protagonisti, perché l’architettura non è una disciplina lineare, è piuttosto una spirale, c’è un continuo confronto e dialogo con la storia”. Riscoprire i materiali e celebrare gli spazi, perché “il linguaggio di architettura significa fare spazio”. Una definizione che una volta di più segna una distanza dall’epoca delle archistar, delle sfide a colpi di grattacieli sempre più alti, degli edifici monumenti di sé stessi. Farrel e McNamara vengono da un altro modo di fare architettura: “Pensarci come creatori di spazi ci libera in qualche modo da pensarci come creatori di oggetti”. ANSA/RED