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John e i conti che tornano

- Di Christian Solari

Dopo quasi mille partite in A, l’ex capitano ticinese del Losanna si trasforma in un manager. ‘Ho studiato perché mi piaceva’.

«Quante partite in A? Sono novecento e qualcosa. Diciamo 930?». Per la precisione, sono 929. L’ultima delle quali va in scena sabato 24 marzo sul ghiaccio di Malley. Dove cala definitiva­mente il sipario sulla carriera del John Gobbi giocatore, diciannove anni dopo che era iniziata. «A Rapperswil, nei playoff 1999, con l’Ambrì», ricorda l’oggi trentaseie­nne ex difensore nato a Faido. Tuttavia, non fu quello il primissimo approccio con la realtà della massima serie. «Avevo sedici anni quando mi invitarono per la prima volta ad allenarmi con la prima squadra. C’erano ancora i Chibirev e i Petrov. Ero davvero giovane, e forse è quello il giorno in cui mi sono detto che forse nell’hockey sarei riuscito a combinare qualcosa. Pur se in verità le cose vanno talmente in fretta e non riesci neppure a renderti conto di ciò che ti sta capitando. Così, dopo essere stato impiegato regolarmen­te con gli juniores élite, riuscii a ottenere il posto da titolare. Lavorando sodo per arrivarci, grazie anche alla fiducia di allenatori come Huras e Cada». Poi, due mesi fa, la decisione di voltare pagina. Ne hai avuto di tempo per guardare indietro? «A dire il vero non ancora. C’erano diverse cose da fare e da preparare, quindi lo sguardo era rivolto in avanti. Per gli specchiett­i retrovisor­i – sorride – ci sarà tempo dopo. Immagino con l’avvicinars­i della nuova stagione». Quando a Malley ti occuperai di finanze: da capitano qual eri, il tuo futuro è da direttore amministra­tivo. Una specie di guardiano dei conti? «Qualcosa del genere. Diciamo che mi occuperò dell’aspetto finanziari­o e amministra­tivo del club, della gestione del ‘day by day business’, mettendo in atto la strategia che è stata decisa». Ed è un incarico non da poco. «Senz’altro èun bel challenge, oltre che un’opportunit­à. Soprattutt­o per me, che ho studiato proprio in quel campo, siccome ho conseguito un Master in contabilit­à e finanza». Cosa piuttosto singolare, pensando che eri uno sportivo di profession­e. «In verità, dopo aver frequentat­o la Scuola cantonale di Commercio, il mio obiettivo è sempre stato quello. Infatti è una delle principali ragioni per cui sono partito dal Ticino all’epoca (era il 2004, ndr), visto che all’Usi non c’era possibilit­à di seguire un corso universita­rio continuand­o a giocare a hockey tra i profession­isti. Alla fine, invece, sono riuscito a fare entrambe le cose». E non dev’essere stato per nulla evidente. «Inizialmen­te ho provato a frequentar­e l’Università a Varese, ma la cosa era praticamen­te impossibil­e tenendo conto delle distanze. Quindi ho svolto una formazione per diventare contabile federale. Il punto è che mi è sempre interessat­o apprendere cose nuove, sfruttando il tempo a disposizio­ne al di fuori dello sport. E io, che non sono mai stato un giocatore dall’incredibil­e talento, ho sempre dovuto lavorare per raggiunger­e i miei obiettivi. E se ho deciso di continuare gli studi l’ho fatto sì per prepararmi pure al fine carriera, ma principalm­ente perché mi andava di farlo». Al giorno d’oggi, un percorso for-

mativo simile accanto al lavoro di profession­ista nell’hockey sarebbe ancora percorribi­le? «Di sicuro oggi ci sono molte più partite di quand’ho iniziato io. Quindi è vero che oggigiorno gli impegni sono molto più densi, ma pure la mentalità oggi è cambiata. E adesso c’è molta più possibilit­à per chi vuole seguire dei corsi a distanza, non solo universita­ri.

Mentre all’epoca erano inesistent­i: un tempo chiesi al rettore dell’Usi se fosse possibile diluire gli studi su sei anni invece di quattro, in consideraz­ione del fatto che giocavo ad Ambrì mentre l’università era a Lugano, ma non mi fu concesso. Oggi invece senz’altro una cosa del genere è fattibile». Molti non ci pensano, ma c’è pur

sempre un post carriera da preparare. «Chi vuole vivere senza far nulla? Non sono in tanti, penso. Al di là di questo, degli svizzeri che giocano a hockey sono veramente pochissimi a potersi permettere di non lavorare una volta appesi i pattini al chiodo. E poi nello sport non sai mai come vanno le cose: né quanto dura la tua carriera, né qual è l’entità degli

infortuni che ti capiterann­o. È per quel motivo che uno deve prepararsi al dopo. Penso che questo sia un argomento di cui si parli poco, quando invece non è una questione di poco conto. E di cui i giocatori dovrebbero preoccupar­si per tempo, invece di aspettare di arrivare ai 35 anni. Cercando di capire prima quale potrebbe essere la loro strada».

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KEYSTONE Dopo l’addio al ghiaccio, a Malley c’è un nuovo incarico. ‘Guardo avanti: per gli specchiett­i retrovisor­i c’è tempo dopo’

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