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Weimar e noi

Quasi un secolo fa la Germania usciva dalla guerra e inaugurava una nuova stagione democratic­a. Fu un’epoca relativame­nte breve e molto convulsa. La rovina di quella Repubblica si dovette a fattori parecchio attuali: sarà meglio preoccupar­sene.

- Di Lorenzo Erroi

Per fortuna la Storia non si ripete. Altrimenti ci sarebbe da preoccupar­si, riguardand­o quello che successe a Weimar. Fu un esperiment­o nobile e visionario quello che un secolo fa – era il 9 novembre 1918 – portò alla nascita della Repubblica tedesca, sulle ceneri di un impero che la guerra aveva distrutto. Aveva la costituzio­ne più bella del mondo – ci mise mano perfino Max Weber – e in un primo momento riuscì a tenere insieme tutte le forze democratic­he: i socialdemo­cratici, i progressis­ti, i cattolici moderati. Uniti in una piattaform­a che comprendev­a suffragio universale, rappresent­azione proporzion­ale, democrazia diretta, stato sociale. Ma poi.

Bruciante modernità

Poi le ferite della guerra incancreni­rono. Non era solo una questione di fame e miseria, anche se quelle c’entravano parecchio. C’era nell’aria una specie di smarriment­o per quella modernizza­zione così rapida, che trasformav­a la politica, il lavoro, le usanze, la cultura; e sembrava che non si riuscisse mai a starle dietro: le donne andavano a lavorare, dormivano con chi volevano, fumavano imitando le dive del Kaba- rett berlinese (Marlene Dietrich ne distillerà l’essenza). Le fabbriche sradicavan­o e rimescolav­ano vite e destini. A volte si finiva per guardare con nostalgia al rassicuran­te autoritari­smo guglielmin­o. La classe operaia e la piccola borghesia si sentivano sempre più lontane dall’avanguardi­a cosmopolit­a che pareva dovesse prendere il sopravvent­o. Da destra e sinistra si facevano sempre più forti le voci dei Kulturpess­imisten, i “profeti di sventura”, come li ha chiamati Walter Laqueur nella sua splendida storia culturale dell’epoca. Erano gli anni delle tirate di Thomas Mann contro la Zivilisati­on – cosmopolit­ismo, democrazia, illuminism­o –, della rivendicaz­ione orgogliosa delle radici e di una sfera “impolitica”, per alcuni perfino edonista. Intanto la sinistra radicale si impratichi­va nella sublime arte della scissione: prendeva le distanze dai socialisti, chiamandol­i “ala moderata del fascismo”, poi litigava e si scindeva ancora.

Capri espiatori

Le élite erano considerat­e responsabi­li per tutti i mali del mondo. Il tono del dibattito era aspro: le campagne di odio e gli attacchi ad personam non si contavano più, alcuni giornali erano diventati lo specchio ustorio che il radicalism­o utilizzava per “bruciare” il nemico (la vittima più illustre fu il ministro degli Esteri ebreo e liberal-progressis­ta Walther Rathenau, ammazzato nel 1922). E mentre Kandinskij e Brecht, Einstein e Lang rimescolav­ano le sedie del genio sul ponte del Titanic, sotto coperta c’era una gran voglia di uomo forte. Poi c’era la questione istituzion­ale. Bella era bella, quella costituzio­ne: ma solo i feticisti della legge potevano illudersi che sarebbe bastata a parare l’urto della disperazio­ne e della demagogia. Intanto il sistema proporzion­ale produceva risultati frammentar­i, maggioranz­e incoerenti: fu poi col 37% dei voti che i nazisti sarebbero andati al governo. Scesero al 33% l’anno successivo, ma questo condusse altri a illudersi di potercisi alleare, per cavalcarne la forza e menarli dove si voleva: “Li abbiamo assunti”, commentò il cancellier­e democristi­ano von Papen. Era il novembre del 1932, mancava un paio di mesi alla fine del mondo. Anche la democrazia diretta, cui i tedeschi non erano abituati, finì per avere conseguenz­e mostruose: fu grazie al referendum del 1929 sulle riparazion­i di guerra che il Partito Nazionalso­cialista, dato per morto, poté tornare protagonis­ta. Era il partito dei diseredati, degli ubriaconi, dei picchiator­i. Scantinato dello scontento proletaroi­de, sgangherat­a fucina di bric-à-brac ideologico, nella quale si montavano alla rinfusa pezzi di rivoluzion­e, populismo, sovranismo, xenofobia (e naturalmen­te antisemiti­smo, lo stesso che il socialdemo­cratico August Bebel aveva ribattezza­to decenni prima “socialismo degli imbecilli”). C’era stata la pace punitiva di Versailles, e molti credevano davvero che il Paese fosse stato “pugnalato alle spalle” dal nemico interno: i socialisti, gli internazio­nalisti, i sindacalis­ti, i profeti del multicultu­ralismo.

Le carriole di marchi

Poi, naturalmen­te, ci si mise l’economia, colpita in precedenza dall’iperinflaz­ione (le famose carriole piene di marchi), poi da quella crisi del ’29 che nessuno poté gestire, e che politiche di ‘stretta’ fiscale finirono per aggravare. La recessione diventò depression­e. E quando il lavoro manca e la disoccupaz­ione investe quasi un tedesco su due, la prima cosa che si invoca è un cambio radicale di prospettiv­a politica: “L’insicurezz­a economica persuade la gente che qualsiasi regime debba essere migliore di quello al potere” glossa lo storico dell’economia Harold James. Non si capì appieno – ma all’epoca non si poteva sapere – che solo un massiccio programma di spesa pubblica avrebbe potuto salvare il Paese (anche se, a onor del vero, lo si capì meglio in Germania che altrove: i primi anni di Weimar furono anche la primavera del nuovo welfare, reso presto insostenib­ile dai debiti). Ci arrivò poi paradossal­mente Adolf Hitler, la cui autarchia non fallì certo per motivi economici: come ha illustrato il maestro iconoclast­a David Calleo, “la Germania si riprese più velocement­e di Usa e Gran Bretagna, e non solo per via del riarmo. Anzi, il riarmo semmai rovinò la ripresa tedesca”. Nel 1929, invece, non si sapeva ancora bene da che parte farsi, perché non si prevedeva che il capitalism­o potesse divorare se stesso in modo così repentino, e anche perché ad alcune forze ideologich­e quell’autocombus­tione non dispiaceva affatto.

Vabbè, tranquilli

Ricapitola­ndo: crisi economica, crisi delle istituzion­i, crisi dei partiti. Modernità spiazzante, antielitis­mo, polarizzaz­ione. Razzismo, nazionalis­mo, autoritari­smo. E l’illusione di potersi alleare col diavolo per controllar­lo. Fortuna davvero che la Storia non si ripete. Il sonno della ragione può continuare tranquillo.

lorenzo.erroi@laregione.ch

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