Il passo di Nessi
‘Svizzera italiana’
‘Se ho messo insieme questo libro è anche per dare aria a questa forma di formaggio’, dice Alberto Nessi. La forma di formaggio è la nostra regione, chiusa a sud e a nord, che lui percorre e racconta nei suoi luoghi più discosti e significativi, con gli strumenti dello scrittore; la memoria, l’immaginazione e uno sguardo curioso che vivifica i luoghi e chi li abita...
Quando qualcuno di qui, come Alberto Nessi, si trova a dover scrivere un libro sulla Svizzera italiana, è evidente che debba fare i conti con il proprio paese. È la questione dell’identità, per usare una parola equivoca e fortemente manipolata (che pronuncerò appena e poi non userò più). Mi spiego con un esempio. In Italia gli esami di maturità liceale, che si tengono in luglio, sono un avvenimento nazionale e molti quotidiani pubblicano i titoli dei temi di italiano. Anni fa ‘la Repubblica’ lo fece chiedendo contemporaneamente ad alcuni scrittori di proporre un loro svolgimento. Ricordo un tema: una frase di Cesare Pavese all’inizio di “La luna e i falò”, dove un personaggio torna dopo anni al paese d’origine in cerca delle proprie radici. È convinto che “un paese ci vuole” perché “vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Lui va in cerca dei nocciòli della propria infanzia. Mi ha colpito lo svolgimento dello scrittore Vincenzo Cerami, cresciuto a Roma in un quartiere popolare (dove fu allievo, alle medie, del professor Pier Paolo Pasolini). Scriveva: pensate un ragazzo delle periferie romane, disastrate; altro che ritorno ai nocciòli, quello appena può taglia i ponti per sempre. E non si può dargli torto. Rispetto ai due poli estremi – solo qui mi trovo bene, oppure via il più lontano possibile – come si colloca Nessi? Ce lo lascia capire lui stesso perché indica, davanti a sé, tre esempi di scrittori ticinesi: due che se ne sono andati e uno che è rimasto, e con loro si confronta. Se ne è andato Enrico Filippini, con una scelta radicale di rifiuto. Tornerà per un viaggio di ricognizione sui luoghi d’origine, malato, prima di rientrare a Roma a morire, come racconta in “L’ultimo viaggio”. Se ne è andato Mosè Bertoni, in America latina, lontano dalla “supposta patria” per sfuggire “questa società corrotta”. È invece rimasto Plinio Martini, per il quale il Cantone Ticino è “chiuso al nord dalle Alpi e al sud dal confine, è come una forma di formaggio che non prende aria e fa i vermi”. Nessi commenta: “se ho messo insieme questo libro è anche per dare aria a questa forma di formaggio” (pp. 1312). È un’istanza etica, dunque, che lo guida. Vediamo come si mette all’opera. Semplificando, mi sembra che egli usi tre chiavi per aprire le porte nel modo che ritiene giusto.
La memoria dei luoghi
Prima chiave: assume il ruolo non di giudice ma di osservatore. Lo dice subito: “Io, qui, mi limito a esplorare. Per me, che ci vivo, la Svizzera italiana è luogo di ricognizione. Riscopro il paese” (p. 10). Ora, un esploratore non si mette in viaggio alla cieca. Si prepara. Parte con una mappa e l’itinerario tracciato. Nessi si è preparato leggendo decine di scrittrici e scrittori, ticinesi, svizzeri, “stranieri” (è questa d’altra parte la condizione della collana in cui il libro esce, che si intitola “Le Città Letterarie”); una lunga lista che costituisce per il lettore una piacevole sorpresa. Si mette in viaggio e va a verificare i luoghi da loro descritti. Per esempio, a Mesocco visita la chiesa di Santa Maria del Castello e si affida per la descrizione alle parole di Laura Pariani. Così recupera la memoria di quel luogo. Un’osservazione: la prospettiva della narrazione è quella autobiografica (“Io, qui…”); Nessi diventa viaggiatore protagonista, e tra i luoghi da visitare include quelli del suo passato giovanile.
L’immaginazione dei luoghi
Ma il viaggiatore va a verificare anche luoghi non descritti: quelli in cui alcuni scrittori sono nati o hanno vissuto. Per esempio, va a Sala Capriasca sulle tracce di Alfonsina Storni. Lì c’è solo una casa e una targa. Quando nella mappa c’è questo vuoto, Nessi ha in serbo un’altra chiave, che dichiara così: “Mescolo il mio sguardo con quello di scrittori o scrittrici” (p. 11). Così a Sala Capriasca attinge ai versi della poetessa e ricrea un’atmosfera che fa rivivere Alfonsina come personaggio. Qui la memoria, che è lo strumento proprio della storia, si nutre con l’immaginazione, che è lo strumento proprio della letteratura, quello straordinario strumento che dà alla letteratura il suo potere “magico”, cioè di essere l’arte che può far vivere ciò che non c’è.
La cautela dello sguardo
Ma come si muove Nessi nelle sue quindici passeggiate per la Svizzera italiana? Sceglie i mezzi della mobilità lenta: treno, bus, e si sposta a piedi: “Camminare fa lavorare la mente, e ci rende attenti agli altri” (p. 57). Tiene occhi e orecchi aperti, e in mano un taccuino. Così, se gli scrittori schiudono il mondo di ieri, il viaggiatore Nessi si mette nelle condizioni di cogliere il mondo di oggi. Lo registra e lo fa entrare alla pari. Per farlo impiega una terza chiave: la cautela dello sguardo, si potrebbe chiamare. Prende in prestito le parole di Hermann Hesse, che durante il suo lungo soggiorno qui da noi ha scritto, a proposito dei ticinesi: “Quello che codesta gente vede nelle sue case e nei suoi orti, io non lo vedo, o ne vedo ben poco. Ma quelli del villaggio non vedono a loro volta quello che i miei occhi scorgono” (p. 72). Parafrasando quel che s’è detto sopra, Nessi mescola il suo sguardo non solo con gli scrittori ma anche con chi incontra. Come dire: so che il mio sguardo è imperfetto, ho bisogno di incrociarlo con gli sguardi degli altri. È la consapevolezza di Proust, secondo cui “Il viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”.
Il roccolo
Che Svizzera italiana esce da questo libro? Non la selezione di monumenti e paesaggi belli, com’è proprio delle guide turistiche, ma l’attraversamento di un paese eterogeneo, pulsante, multigenerazionale e multietnico, dove accanto al superbo romanico di Giornico si ergono gli orrendi luoghi e non luoghi che stanno sconvolgendo il paese, dove il baccano infernale dell’autostrada ha preso il posto del silenzio che a Montagnola incantava Nessi, e dove scorre un’umanità varia, ora tenera ora sgradevole, in cui spicca un’attenzione particolare ai più indifesi, che è il mondo con cui l’autore si sente in sintonia. Chi leggerà questa “Svizzera italiana” allora vi riconoscerà lo stesso poeta e narratore degli altri libri, soprattutto dell’ultimo, “Un sabato senza dolore”, in cui è ricorrente il tema del viaggio, del viaggio in treno attraverso luoghi della Svizzera, e dove sfilano quegli umiliati e offesi senza voce a cui Nessi dà la parola da tanto tempo. Sulla copertina del libro c’è la fotografia di una vecchia torre, sullo sfondo di un paesaggio invernale. A guardarla così sembra solo il reperto di un passato che non c’è più, ormai inutile e inutilizzato e di cui stiamo perdendo la memoria. Quanti sanno che è un roccolo e serviva per l’uccellagione, una pratica della caccia proibita in Svizzera quasi 150 anni fa? Ma se questa fotografia la nutriamo con la memoria storica e con l’immaginazione, due chiavi che Nessi usa per viaggiare, allora il roccolo si anima: si popola di cacciatori, di gitanti, di lucertole e di nuova vegetazione a primavera, e soprattutto di uccelli di passo (migratori si dice, che migrano senza frontiere e senza patria), che qui venivano e vengono ancora in cerca di cibo e da qui ripartono per andare lontano. Ma se il roccolo in apparenza è un luogo idillico, di richiamo e di accoglienza, in realtà è una trappola, una trappola mortale. Viene in mente Ugo Foscolo, che ricordando l’esilio zurighese ha scritto una volta: “Gli ottimi svizzeri guardano il forestiero come cacciagione. E sta bene… stiasi a casa sua”. Allora l’idillio del roccolo si rompe, diventa ambivalente e inquietante. Non so perché sia stata scelta quest’immagine per la copertina, ma mi sembra che esprima perfettamente la sostanza del libro.