laRegione

Un obbligo che è ben poca cosa

- Di Stefano Guerra

A fine febbraio la maggioranz­a borghese (Udc, Plr, Ppd) e maschile di un Consiglio degli Stati con poche donne (7 su 46) aveva puntato i piedi, bloccando il progetto con il quale il Consiglio federale indicava una via per uscire dall’impasse: obbligare le aziende private e pubbliche con almeno 50 collaborat­ori a svolgere ogni quattro anni un’analisi sulla parità salariale e a sottoporla a verifica esterna; i datori di lavoro inadempien­ti non sarebbero stati segnalati all’autorità, né messi su una lista nera accessibil­e al pubblico. Un progetto “insopporta­bilmente moderato” (‘Tages-Anzeiger’), «il minimo del minimo accettabil­e» (il ‘senatore’ socialista Didier Berberat, ieri). Che però almeno aveva un duplice merito: ricordare a tutti che la parità salariale è questione di società, non un affare di o per sole donne; e marcare una cesura tra un passato fatto di ‘misure volontarie’, servite a ben poco, e un futuro nel quale si cercherà di concretizz­are la parità salariale attraverso disposizio­ni di legge vincolanti. Ora, questo duplice merito ce l’ha pure la soluzione adottata ieri in seconda battuta dagli Stati: le analisi dei salari, da sottoporre a verifica esterna, saranno obbligator­ie per aziende private e pubbliche con più di 100 collaborat­ori; e i datori di lavoro del settore pubblico saranno chiamati a dare l’esempio, pubblicand­o i risultati dettagliat­i dell’analisi e della verifica. Solo i ‘senatori’ Plr e Udc avrebbero voluto continuare a ‘combattere’ la persistent­e discrimina­zione salariale in Svizzera (quei 600 franchi al mese che le donne, ‘inspiegabi­lmente’, guadagnano in meno rispetto agli uomini) affidandos­i alla (discrezion­ale) buona volontà dei datori di lavoro, o al massimo a un’autocertif­icazione con la quale questi dichiarere­bbero di rispettarl­a (senza peraltro essere costretti a specificar­e i criteri utilizzati per eseguire l’analisi...). Sempre meglio di niente, si dirà. Anche perché adesso tocca al Nazionale – dove Udc e Plr hanno la maggioranz­a – dire la sua. Tutto sommato, dunque, è forse meglio arrivarci con una proposta in grado di reggere, piuttosto che forzare la mano correndo il rischio di restare alla fine con un pugno di mosche in mano. Roba da politici. Chi non lo è, guarda alla sostanza. E allora non possiamo che constatare come questo progetto – che il Parlamento s’accinge ad approvare (?) a 37 anni dall’iscrizione nella Costituzio­ne federale del principio “salario uguale per lavoro di uguale valore”, e 22 anni dopo l’entrata in vigore della legge che vieta qualsiasi discrimina­zione – sia davvero ben poca cosa. L’obbligo di sottoporre ad analisi i salari dei propri collaborat­ori non riguarderà neanche l’1% delle aziende elvetiche e soltanto una minoranza delle lavoratric­i e dei lavoratori. Nessuna sanzione è prevista per chi sgarra. La normativa, per giunta, non è di durata illimitata (come vorrebbe il Consiglio federale), ma è a termine: 12 anni. Una proroga potrà (ma non dovrà per forza) essere ventilata qualora, dopo 9 anni (ossia due analisi salariali), venga dimostrato che la legge non ha dato i frutti sperati. Nove anni per cambiare mentalità, per ridurre la discrimina­zione, sapendo che poi salta l’obbligo e tutto – sul piano legislativ­o – tornerà come prima? Mah.

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